Nella mia mente di bambino rimasero come impressi a fuoco vivo i ricordi di quei giorni. Io ero nato l’anno dello scoppio della guerra. Nove lunghi anni, e si continuava a combattere. Uno dopo l’altro, i miei fratelli e fratellastri più grandi erano morti, e me ne restavano solo due. Ricordo l’attenzione massima ad ogni forma di comunicazione con l’esterno, e ricordo come un dolce sogno o una visione la comunità favorita dagli dei delle donne dello scamandro. No, non potrò mai dimenticare gli avvenimenti di quei giorni. Sono quelli, gli ultimi giorni di una lunga guerra che, capisaldi di una memoria che ormai va in frantumi, una memoria i cui frammenti vanno alla deriva nel mare dei ricordi, dei sogni e delle allucinazioni, restano fermi, vividi e limpidi come acqua di sorgente, eppur ardenti come tizzoni, vividi come la luce delle stelle sulle ciclopiche mura, tenaci come la grande porta in legno d’ulivo e bronzo. Non passa notte ch’io non sogni di trovarmi ancora in quegli anni, solo o con la mia famiglia.
Sono tanti, innumerevoli gli episodi che fanno parte della mia storia. Le lance, gli scudi, le frecce. Una freccia in particolare, traditrice, del mio ultimo fratellastro, avvelenata e riservata al seminatore di lutti, colui che infrangibile carne era, umano eppur inumanamente invulnerabile. Achille, signore dei Mirmidoni, nelle armi forgiate da Efesto era bellissimo, pareva davvero di vedere Ares sceso tra gli Achei armi in spalla, pronto a dare il colpo di grazia ad un’estenuata Troia. E invece lui, Paride, il fanciullo, la causa della guerra, che aveva rapito una fantomatica fanciulla che nessuno di noi aveva mai veduto, uccise il grande gigante, l’eroe degli eroi, colui che solo tra gli uomini di quei tempi poteva dirsi degno d’essere annoverato tra i Grandi, al fianco di Teseo, Bellerofonte, Ercole o Perseo. Quando cadde, ecco che sembrò ancora una volta affacciarsi la speranza della vittoria per noi a Troia. Avevamo perso Ettore, questo è vero, ma Paride abbattè Achille con un’unica freccia, lui, ceppo partorito dalla carne, aveva saputo riscattare almeno in parte la vita del nobile erede al trono di Ilio.
La caduto di Ettore era, è e rimarrà per sempre il ricordo più struggente tra tutti quelli che ho collezionato nella mia lunga vita. In una mattinata calda, di sole splendente, scese fuori dalle porte, che pareva minuscolo sotto di esse, Ettore, ed era armato delle armi che erano appartenute ad Achille e Apollo aveva poi tolto nella battaglia a Patroclo, che da Achille sopra tutti era amato. Quelle armi, portate a Peleo in dote da Teti, figlia di Nereo, come dono di nozze, che Efesto dalla Nereide allevato forgiò nel fuoco del vulcano, erano pesanti, terribili e magnifiche.
Portava invece Achille nuove armi, certamente anch’esse di fattura divina, e sul suo scudo luceva la Storia. Tremendi a guardarli erano entrambi, e nessuno di coloro che stavano spettatori sulle alte mura della città potè maledire o biasimare Ettore quando, preso da spavento tremendo alla vista del Mirmidone, corse via, molte volte girando intorno alla città. Tremavano le vene e i polsi di noi tutti e credo soprattutto di Ettore, che solo fronteggiava un nemico che era anch’esso da solo, ma un esercito aveva in sé. E fu combattendo che l’Eroe di Troia cadde, ma cadde ingannato, come ingannato era caduto Patroclo. Una dea, infatti, dietro le sue spalle tremende trame aveva ordito, e da scudiero travestita, le aste sottrasse a Ettore.
Ma Achille la Bestia non s’accontentò d’aver preso la più gagliarda vita di Troia, volle anche distruggere ogni barlume di speranza, ogni briciola di onore che ancora risiedeva nei cuori troiani anche alla vista del Capitano caduto. Volle svilire ogni ideale di vendetta e reprimere nel terrore le fiamme del coraggio che alla vista del combattimento s’erano risvegliate, come fuochi al vento. Egli, come fortunale, s’abbattè sugli animi dei troiani, spegnendo nel gelo della bestialità ogni umano sguardo.
Trafitti ai talloni i piedi di Ettore mio fratellastro, li legò con corregge di cuoio al suo cocchio e nove volte al galoppo lanciò i cavalli, sfigurando orrendamente e mutilando orribilmente il corpo senza vita del Principe.
È con paura e sguardo funestato dall’orrore che ritorno con la memoria a quei giorni, senza più fanciullezza nei miei nove anni da poco compiuti. È con orrore che rammento lo sguardo di Priamo mio padre distrutto, la sua schiena incurvata, schiena che da quando serbo memoria mai avevo visto incurvarsi sotto il peso dei lutti per gli altri miei fratelli e fratellastri che pure in tanti avevano perso la vita in quella orrenda e inutile guerra. È con terrore che mi sveglio la notte da sogni funestati dall’immagine di Troia in fiamme, incendio figlio del maligno disegno di Odisseo il traditore. Con disperazione rivivo lo sguardo di Paride morente, anche lui, ultimo dei Principi, che causò la rovina di noi tutti.
L’unico barlume e fiamma di speranza fu lo sguardo di Enea che, seppur perduto tra ombre e fantasmi, ci condusse via dalle fiamme, imbarcandoci come quelli che chiesero perdono in Occidente o fuggirono dalla terra donata. Egli ci portò via, e io bambino ricordo solo che mi svegliai bagnato su una spiaggia. Poi mi raccontarono che su una delle navi sulle queli noi viaggiavamo c’era stato un ammutinamento contro Enea, accusato di essere lui l’artefice della nostra rovina, di averci portato via dalle nostre comode e tiepide e sicure case per portarci verso un freddo, buio e incerto futuro. La rivolta era stata sedata senza grandi spargimenti di sangue, ma nel frattempo tutti i bambini erano stati gettati fuoribordo, e le famiglie che si erano ribellate all’ordine assieme ai figli.
Ricordo una spiaggia, e poi la fine della mia fanciullezza con l’arrivo di un’altra nave, che Argo aveva nome, senza gli Argonauti però a bordo, animata da ombre e fantasmi che di notte quanto di giorno non lasciavano a noi tregua. Neanche Fise, cantore di straordinaria bravura, che in tanti dicevano essere secondo solo a Orfeo, riusciva a distrarre per più di qualche istante le menti tanto degli adulti quanto dei bambini dallo stridore che proveniva dalle navi, dallo sferragliare delle catene e dal rumore ritmico e terrificante nella notte di remi che si muovono in tanti all’unisono negli scalmi. Partimmo di nuovo, ancora una volta esuli, dopo sei anni di tortura. In molti avevano perso il senno in quella follia, e Follia di Argo fu chiamata per lungo tempo il male della mente che inaspettatamente colpiva a tradimento uomini, donne e bambini. In molti perirono di quel male, non riuscendo più a trovare la forza di mangiare, la mente ottenebrata da visioni di morte che convincevano i folli di essere anche loro appartenenti al regno dei morti e di non avere bisogno di mangiare, oppure alle donne d’essere Persefone, e neppure chicchi di melograno volevano mangiare, per timore di restare chiuse per sempre nell’aldilà oscuro che le loro menti annebbiate e confuse avevano creato in preda alla Follia. La mia famiglia, ovvero io, mia madree mia sorella, e poi mia moglie, fummo colpiti dalla Follia. Per prima cadde folle mia madre, e convinta di riavere il suo re di nuovo tra le braccia, cadde morta per l’emozione ai margini di un sentiero boschivo, ormai eravamo lontani dal mare, e al suo sogno eterno di amore la lasciammo, senza pira ne sepolcro. Mia sorella, allo stesso modo, sognava d’essere ancora concubina come era stata mia madre, e credeva di poter riabbracciare suo figlio, che nello stesso inverno di Astianatte era nato, e anche lui Scamandrio si chiamava. Anche lui, come l’altro Scamandrio, da Neottolemo era stato scaraventato dalle mura, sotto gli occhi atterriti e stupefatti e disperati di mia madre e mia sorella. Mia moglie, incinta del nostro secondo figlio, non seppe mai cosa la Follia le mise in mente, quale dio le ottenebrò la vista. Ella s’uccise pugnalando il suo ventre, e mai più disperato fui. Io e mio figlio continuammo, e a volte ci accusarono d’esser folli. Ma eravamo rimasti solo noi, un bastardo di re e suo figlio, a guidare quello che restava di un popolo senza casa, senza terra e senza neanche più una mente. Ci seguirono fino alla rovina finale, l’Ultima Spiaggia. E lì, sulla bianca rena, dove avevamo creduto d’aver trovato dopo dieci anni di pellegrinaggi, finalmente la pace, arrivò al quinto autunno, spinta sulle ali di un vento portatore di piaga, l’orrida triade delle Erinni del sangue di Urano. Nelle mani, portavano torce e fruste, e dai capelli intrecciati a serpenti proveniva tanfo di morte e peste.
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Ore 00 - Memorie di un troiano
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Oleh
Poex