domenica, novembre 03, 2013

Si pagano il passato e la cattiveria con se stessi.

Pesante come il silenzio, immota la tenda di velluto nero copriva dal soffitto a terra la visuale. Tutto era nero. Nessun riflesso perlaceo tradiva il buio, assoluto come lo sguardo di una maledizione. La cecità era ad un solo passo da quel buio silenzioso così assoluto. A malapena s'intravedeva un'increspatura nel rigore della dritta linea del tendaggio. Una frattura nella linearità del ragionamento del buio. Non c'era tempo, né spazio. La tenda poteva essere enorme e distante come minuscola e vicinissima. O entrambe allo stesso tempo. Non c'era logica, né razionalità. Il buio inghiottiva tutto. Il buio era tutto. E quello spigolo. C'era, ma finiva lì. Non c'erano congetture, né ragionamenti. L'oscurità era assoluta. E quello spigolo. Non lasciava spazio a pensieri, che come lame di luce fulgida attraversano la mente buia e silenziosa per portarvi domande. In quel buio, in quella cappa di silenzio pesante come uno scongiuro, qualcosa tirò. Si tese il buio e si aprì uno strappo nei tendaggi, portando fuori, nel buio, la luce. Lo spigolo era luce. Fioca, ma accecante in quel buio silente e pesante. Sotto i tendaggi c'era una scatola di cristallo. Una camera di cristallo. Un letto, un piccolo scrittoio, un armadio a due ante. Una sedia. Guardavo la camera, e non mi accorsi dell'omino. Egli, guardando fuori, picchia violentemente con i pugni e con il capo contro il vetro. Il suo volto è oscenamente deformato da smorfie di dolore e urla che giungono agghiaccianti, a malapena attutite dalle pareti di vetro, simili più a latrati che a urla umane. L'omino picchia il capo e le mani aperte contro il vetro, con impeto sempre crescente, e tanto il vetro quanto il suo volto iniziano ora a macchiarsi di scarlatto. I suoi versi si fanno ancora più terrificanti, nasali. Le mani iniziano a scorticarsi contro il vetro, sanguinando. Ancora un colpo con la fronte. Un altro. Ancora uno. Tonfo. L'omino è a terra, prono, il volto rivolto verso l'esterno. Adesso, attraverso il vetro non più appannato dal fiato né sporcato dal sangue, guardo la faccia martoriata dell'omino e lentamente ne distinguo i particolari. Ridotto ad una maschera di sangue, con orrore vedo ferite vecchie alternarsi alle nuove, lividi ormai gialli al fianco di quelli ancora rossi e viola. Tagli, abrasioni. Respira ancora, e appanna leggermente il vetro in corrispondenza della sua bocca. Ha le mani insanguinate. Stringono un oggetto lungo, sottile. Una penna. Infilzata sulla sua lingua. Cielo, quest'uomo si è strappato la lingua. Folle. Quest'uomo è folle. Qui, dove non c'è spazio né tempo né pensiero, mi avvicino alle pareti, incuriosito da quest'uomo. Imprudente. Avvicinandomi, noto sullo scrittoio un quaderno nero, chiuso con un elastico. La copertina, rigida, sembra essersi piegata tempo fa, le grinze si notano appena attraverso il vetro, coperte dalle ditate rossicce. Quest'uomo scrive. Temo per me e per lui. Cosa succederebbe se si rialzasse? Mi vedrebbe? Non ho incrociato il suo sguardo durante il suo delirio di violenza, ma cosa vedrei in quegli occhi? Non so se voglio scoprirlo. Abbandonate sul pavimento della camera di vetro, ci sono quattro carte. Tre sono scoperte. Assi. Tre assi. Di cuori.
-se aprissi l'armadio, troveresti il due. Di picche.
Veloce come il pensiero, l'ospite (prigioniero?) della camera di vetro ha scritto sul vetro appannato.
Stranamente calmo, rispondo allo stesso modo.
-e le altre carte?
Per tutta risposta, l'uomo si alza in piedi, sempre ad occhi chiusi, e si volta dandomi le spalle. Noto così che la schiena è un reticolo di tagli e graffi. Profondi, superficiali, nessuno più lungo di dieci centimetri. Dietro il suo orechio sinistro manca la pelle, come strappata a viva forza insieme ai capelli. Il buco è poco più largo di un pollice, ma al rosso si mischiano il giallo e il bianco del pus e dei vermi. Quest'uomo sta marcendo da vivo! Immerso nella mia contemplazione, noto dopo qualche secondo i sussulti del mio interlocutore, come conati di vomito. Riprendono le urla, più gutturali e spezzate. Penso che me ne andrò. Comincio ad avere la nausea. Ma dove andare? Sono nel buio, nel nulla. Mi servirebbe una porta. Nuovamente, distolgo la mia attenzione dal prigioniero. Nuovamente, egli la attira. Voltarsi verso di me e vomitare carte, sangue e vermi biancastri è tutt'uno. Urlo anche io, e per ore, giorni o forse solo qualche secondo le nostre voci sono una sola. Stremato, stramazza nuovamente al suolo, e sono io questa volta a prendere a pugni urlando il vetro. Abbandonato sul letto giace un cilindro. C'è scritto 10/6. Ingannato dal mio stesso slancio, sbatto con la testa contro il vetro, attraversandolo. Dentro ci sono solo io. Fuori, anche. Mi sorride il mio volto dall'altro lato. Un orribile sospetto mi coglie, e mi guardo le mani. Sono insanguinate, e stringono la mia lingua.
Così come lo sconosciuto aveva fatto poco prima con me, lo interpello usando il mio alito.
-che succede?
Lui, in risposta, indica il quaderno e si volta. E sparisce nel buio.
Urlo, vano e disperato, fino a perdere la voce. Ancora una volta non so per quanto ho gridato. Ore, giorni, mesi. Distrutto, mi dirigo allo scrittoio e apro il quaderno alla prima pagina.
-goditi la tua mente. Essa è passato, presente e futuro. Gli esseri umani, con le dovute distinzioni da lingua a lingua, tendono a chiamare questa triade “Tempo”. “Eternità”. Ma io e te sappiamo che così non è. La mente è alla fine del tempo, dove egli smette la sua corsa e non c'è più un prima o un dopo. Né un durante. Goditi il tuo inferno personale, dove mi hai rinchiuso per questi anni, nel quale sono riuscito ad attirarti. Vedi, essere malvagi porta sempre male. Prima o poi, il prezzo di tutto lo paghi. E ognuno è malvagio. Tu lo sei in una maniera sottile, irrazionale e ipocrita. E così sarà il tuo supplizio. Sottile come mille aghi che ti trapassano la carne, irrazionale come i vermi che ti mangiano da dentro e ipocrita come un sorriso sdentato, trapassato dalle tue ossa. Se credi che l'ateismo ti possa salvare dall'inginocchiarti e pregare, inascoltato e inesaudito, preparati ad un brusco risveglio, Biancaneve. So che mi hai ripetutamente guardato in faccia prima, da fuori. Vuoi vedere com'ero prima che mi distruggessi, rinchiuso nella tua gabbia di cristallo? C'è una mia foto sotto il quaderno. Spero ti ricordi di me.-

Guardo sotto il quaderno. Dalla fotografia mi restituisce lo sguardo una copia di me stesso. Urlo.

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Oleh