sabato, ottobre 25, 2014

Gabriele D’Annunzio - La pioggia nel pineto


La pioggia nel pineto - forse uno dei testi dannunziani più celebri e noti - viene scritta con ogni probabilità nel luglio-agosto del 1902, quando Gabriele D’Annunzio e la compagna Eleonora Duse soggiornavano alla “Versiliana”, villa signorile presso Marina di Pietrasanta (Lucca), tra Forte dei Marmi e Viareggio. La spiaggia e la pineta che fanno da scenario al canto dannunziano dovrebbero essere quelle di Marina di Pisa, ad una cinquantina di chilometri dalla “Versiliana”.

Strofe di lunghezza variabile, che mescolano versi di misure molto diverse (si va dal ternario al settenario, dal quinario al senario e all’ottonario, fino al novenario; alcune coppie di versi ricompongono poi la misura dell’endecasillabo), tutte chiuse dal nome di “Ermione”. Le rime sono sparse, e spesso sostituite dall’assonanza. Praticamente costante il ricorso all’enjambement che, come anche nella Sera fiesolana, serve a distendere il discorso e il ritmo su più versi. 

Siamo sul litorale versiliese, nella pineta di fronte al mare. Durante una passeggiata, il poeta e la sua compagna, Ermione, sono sorpresi da un temporale estivo. Prima lui e poi entrambi si tendono ad ascoltare la pioggia, fino ad abbandonarsi internamente alle voci della natura: un canto di cicale, il gracidare delle rane, sotto lo scroscio sempre più intenso. Ebbri di pioggia, i due amanti si compenetrano con la vita vegetale, risvegliata intorno a loro dal temporale estivo.
Da questo esile spunto narrativo di partenza D'Annunzio ha costruito il suo invito ad ascoltare, ad assaporare fino in fondo il grande canto della natura: una voce interpretata e immortalata dalla parola poetica, la favola bella che ieri m'illuse che oggi t'illude , o Ermione.

Due sono i motivi conduttori del testo.
Il primo è il motivo panico e antropomorfico, ovvero la graduale assimilazione del poeta e della sua compagna nella fresca e rigogliosa vita vegetale, che avviluppa i loro corpi e il loro essere. Siamo davanti a una delle tipiche metamorfosi cantate in Alcyone. Essa comporta sì un passaggio, un mutamento di condizione, ma nel senso che l'individuo si reifica (diviene cosa), mentre la natura si antropomorfizza (si umanizza). Non c'è dunque superamento in senso verticale, come invece accadeva ad alcuni esseri, uomini o animali, celebrati dall'antico poeta Ovidio nelle Metamorfosi che venivano associati in cielo agli dei.
L'altro è il motivo dell'amore. Sotto la pioggia battente si svolge infatti un gioco incessante di fughe e lontananze, di ritorni e abbandoni: i due innamorati si cercano, si lasciano, s'inseguono, senza sosta. La libertà di questo gioco è la stessa del cadere fitto delle gocce nella pineta. Perciò il componimento non è solo un gioco di musica o un quadro di metamorfosi; è una danza o una fuga sul tema dell'amore gioco, sull'amore illusione, che appare e svanisce senza fine e che aspira al totale compenetrarsi dei due amanti, senza raggiungerlo mai.
 Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, Ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani

ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.

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Oleh

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