martedì, settembre 01, 2015

How big, how blue, how beautiful



“I don't know, I think I've got quite a strange voice. It's more emotional, perhaps, than technical. I think I quite like to hide it behind lots of backing vocals and things like that — and on this record, Markus Dravs, who is the producer, he was quite adamant that I wasn't going to do that. And I agreed with him, because it's good to be vulnerable, but it was a big change for me. I found it difficult”

E’ passato molto tempo dall’ultimo articolo, me ne rendo conto solo ora che finalmente, dopo settimane, mi rimetto al computer con in testa qualcosa da scrivere, e, in questo momento, mentre sono seduta davanti allo schermo, mi accorgo di quanto mi sia mancato, e mi sembra strano che riesca ad accorgermene solo adesso. A darmi il bentornato è necessario che sia il disco che mi ha fatto da colonna sonora a questi mesi estivi, una scoperta tardiva e troppo speciale per essere lasciata andare e, che, tra le altre cose, si adatta perfettamente a quello che è il tema di questo settembre di nuovi inizi: l’introspezione. E quindi mentre mi siedo alla scrivania, mi dico che sì, questo dev’essere il primo articolo da cui ricominciare.
How big, how blue, how beautiful è il terzo e ultimo disco del gruppo inglese Florence + The Machine, rilasciato il 29 maggio di quest’anno e preceduto da tre singoli accompagnati da videoclip, ciascuno di questi un diverso capitolo della Hbhbhb Odyssey, il nome che il gruppo ha deciso di dare alla sequenza di video rilasciati a qualche settimana di distanza l’uno dall’altro.

Chi conosce Florence da più tempo di me, dopo un’attesa estenuante durata quattro anni, si sarà reso subito conto che questo album è sicuramente il più introspettivo, passionale e personale dei suoi lavori, contrapposto ma anche una specie di continuazione di Lungs e Ceremonials che, invece, avevano atmosfere meno fisiche, meno “umane”, dominati dal mondo dei sogni e dei morti. E questo lato passionale e introspettivo dell’album si individua già nella prima canzone, Ship to wreck, la più conosciuta e forse la più sottovalutata, persino dalla stessa Florence, che in un’intervista ha ammesso che, fino al momento dell’ascolto del disco per intero, non era mai stata convinta di quel brano, per la sua estrema semplicità, rendendo evidente un comportamento che la cantante di Camberwell ha dovuto affrontare più di una volta: la sua tendenza a complicare le cose semplici. Ed è proprio questo che si percepisce in Ship to wreck, così come in tutto il disco: la sua paura di distruggere tutto ciò che ha costruito (Did i drink too much? Am I loosing touch? Did I build this ship to wreck?) e al tempo stesso il desiderio, anzi la necessità, di imparare a vivere e ad amare semplicemente, di affrontare per la prima volta la vita quotidiana da sola, in una casetta nel sud di Londra, senza riflettori, pubblico e scalette programmate a fine giornata. Nel video ci sono due versioni di Florence, una che distrugge tutto ciò che trova sulla sua strada, per rabbia, frustrazione, l’altra che ripara gli oggetti buttati per terra, che abbraccia le persone strattonate.

La seconda traccia del disco, What kind of man, è il Chapter 1 della Hbhbhb Odyssey, come a voler indicare l’inizio, la causa, di tutto, perché se da un lato Florence ha dovuto affrontare tutto quello che si era lasciata indietro all’inizio della sua carriera, dall’altro in questi quattro lunghi anni di pausa, ha vissuto una storia d’amore costantemente paragonata a una tempesta, fatta di indecisioni e dolore, inevitabilmente finita male, e la presenza di questo amore distruttivo aleggia su tutto l’album, come un’ombra di cui non ci si riesce a liberare. What kind of man è ritmata, potente, scandita da colpi di chitarra elettrica, che costituiscono una nuova caratteristica musicale del gruppo, e da una voce che si dimena e aggredisce, e nello stesso tempo crolla e chiede compassione a un uomo che la lascia sempre in bilico (Sometimes you’re half in, sometimes you’re half out, but you never close the door). La cantante stessa ha paragonato What kind of man a una specie di Purgatorio interiore, ad un eterno limbo.
Sulla stessa lunghezza d’onda sono Make up your mind, in cui c’è un ”tu” a cui Florence si rivolge, contro cui si scaglia, ma c’è anche un “io”, la sé stessa a cui parla, per studiarsi, per capire cosa fare, e Hiding (I know you’ve tried, but something stops you every time).


Il capitolo 2 di questa Odissea di cui ormai i fans sentono di far parte è St Jude, una ballata lenta e delicata. Florence ha lasciato il limbo di What kind of man e inizia finalmente il viaggio, da sola, sotto la pioggia, con una tempesta in arrivo, cercandone il significato (And I’m learning, so I’m leaving and even though I’m grieving, I’m trying to find a meaning, let the loss reveal it). Se il capitolo 1 era il Purgatorio, questo sembra essere l’Inferno.

Ci sono Queen of peace e Long & Lost, affiancate in un unico lungo videoclip, dall’atmosfera particolare, grigia, quasi di un altro tempo, con l’ombra di un amore abbandonato per sopravvivere, “some things you let go in order to live”, come canta Florence in Various storms and Saints, forse il più introspettivo dei brani, uno dei più sofferti. “Una lettera a me stessa” dice Florence, una lunga camminata per Londra in un momento di disperazione, di “finirà mai tutto questo?”, seguito da una schiena che si raddrizza, una testa che si rialza (I know it seems like forever, I know it seems like an age, but one day this will be over, I sware it’s not so far away). Delilah e Which Witch, animate dall’inconfondibile tocco di Isabella, tastierista del gruppo e compagna di avventure di Florence dall’inizio, sempre nell’ombra delle retrovie durante i concerti, come una guardia che le guarda le spalle, ma presente in ogni brano. Third eye e Mother, entrambe rivolte a sé stessa, l’una come un incoraggiamento e una rassicurazione (and you deserve to be loved and you deserve what you are given), l’altra come una preghiera (can you protect me from what I want?).
E alla fine c’è How big, how blue, how beautiful, il brano che dà il titolo al disco, ispirato al cielo luminoso e immenso di Los Angeles, luogo in cui è stato scritto, il primo ad esser stato rilasciato accompagnato da un video in cui vediamo una Florence spogliata di tutti i vestiti vistosi ed eleganti che avevano dominato Ceremonials, vestita di bianco, che danza con leggerezza insieme a un’altra se stessa, con i piedi nudi e i capelli sciolti, senza trucco e smalti, c’è solo lei, la potete vedere, finalmente riappacificata con se e con il mondo, che guarda il cielo e dice “how big, how blue, how beautiful”. Con questo brano finisce un’era e ne comincia un’altra, tutti lo sentono, e io, che ho conosciuto la band con questa canzone, l’ ho lasciata per ultima perché Florence ci sembra dire che, alla fine di tutto, ce l’ha fatta, che è felice di aver affrontato uomini indecisi, guerre, viaggi, tempeste, perché l’hanno fatta arrivare dov’è adesso, più matura, semplice, bella. Un brano che è stato il primo, come se da subito Florence ci avesse voluto avvertire del suo cambiamento, che è il terzo nell’album, ma che, secondo me, rappresenta la fine di questo disco, di questo viaggio, di questa odissea, il Paradiso dopo l’Inferno.

“When I had a real crack, and I was making the record, I couldn't get dressed. I wore an anorak and leggings, and I cycled to the studio every day in the rain with my packed lunch. Getting dressed is a kind of creative output for me, but when I was putting all my last resources, and I was a bit broken I think, it was almost like I wanted to just disappear from myself. And the record really rebuilt me and took me to such a better place. It made me so much more comfortable to just be myself”

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4/ 5
Oleh