martedì, ottobre 14, 2014

This must be the place


“La paura ti salva, ti salva sempre.” 
“Ti salva sempre. Anche se bisogna scegliere una volta nella vita, anche solo una, in cui non avere paura.” 
“E tu hai scelto qual è quella volta?” 
“Si. Questa volta.” 

Festival di Cannes 2008. Le strade di Paolo Sorrentino e Sean Penn si incrociano. Il primo con la sua nuova opera Il divo, tranquillo e affabile come sempre, in lui non c’è neanche un’ombra d’ansia, risponde con un sorriso a chi gli fa delle domande, ascolta chi gli parla, il secondo seduto su una delle sedie dei giudici, con l’immancabile sigaretta all’angolo della bocca, gli occhi azzurri un po’ assonnati e forse anche leggermente annoiati che si spostano lentamente dai fotografi alle facce che gli stanno intorno e i capelli grigi spettinati, fa la sua figura, come sempre, i giornalisti lo chiamano “Mr. Sean Penn”, il “mister” è riservato ai divi, lo idolatrano, lui li lascia fare con nonchalance, se c’è soddisfazione o un pizzico di contentezza, lo nasconde bene. Sorrentino è lì per Il divo ma ha già in mente qualcos’altro, sta scrivendo una sceneggiatura, qualcosa di grande, nuovo, bello. E’ agli inizi ma i contorni della storia li ha già ben impressi in mente, così come i luoghi, ha un’idea fissa che non lo abbandona: la provincia americana, è lì che la sua storia sarà ambientata. Ma soprattutto, Sorrentino ha in mente un personaggio, lo stile sarà quello di Robert Smith, il cantante dei Talking Heads, una delle sue più grandi ossessioni, capelli arruffati neri, occhi celesti circondati dal rimmel, rossetto rosso, vestiti e stivali assolutamente e inevitabilmente neri. Ma gli manca un volto, gli manca una faccia da mettere in questo contorno di capelli disordinati, Sorrentino non ha dubbi: vuole Sean Penn. E per la colonna sonora, David Byrne (Talking Heads). Tra sguardi e chiacchiere, Sorrentino riesce a strappare una promessa al suo tanto amato e desiderato Sean, lavoreranno insieme, anche se Mr. Penn si è preso un anno sabbatico. Al sì di Byrne, il regista decide che è ora di partire, si va. 

“La solitudine è il teatro dei risentimenti” dice Cheyenne, la sua vita sembra un essere un teatro di rimorsi e rimpianti, uno scenario decadente di ricordi di un passato troppo lontano da rievocare e troppo vicino da dimenticare, il passato da rockstar per bambinetti depressi, dell’altalena emotiva della tossicodipendenza, del padre con cui ha smesso di parlare. Cheyenne è anche il teatro di un magnifico contrasto, c’è il cinquantenne con l’anima da bambino mai cresciuto, un Peter Pan dark, l’uomo con il viso solcato dalle rughe che ha paura di volare, che non ha mai fumato una sigaretta perché come dice la sua amica ‘solo i bambini non provano mai il desiderio di fumare’, che ha paura degli aghi e che si diverte ad andare nelle pozzanghere con la macchina per bagnare i passanti, e poi c’è lo Cheyenne svuotato, non un alter ego, non un’altra persona, ma sempre e semplicemente lui. La versione parodistica di un uomo che a volte si ricorda di brillare in memoria di un antico splendore. Un palloncino sgonfio tenuto legato a terra da un filo, un motivo per rimanere, e forse per Cheyenne il filo è sua moglie Jane, il fatto che dopo trentacinque anni è innamorato di lei come se fosse il primo giorno. La verità è che non ha un motivo preciso per “rimanere”, non ha quella cosiddetta ragione di vita che tutti cercano e che pochi hanno, ma ci sono delle piccole cose che lo fanno sentire utile, un giovane cantante che gli chiede di produrre il cd della sua band, i Pieces of shit, oppure il timido Desmond che vuole aiuto per conquistare Mary. 


Ma un vero “motivo per rimanere” gli si presenta alla porta un giorno: il padre, con cui non parla da più di trent’anni, sta morendo a New York e lui deve raggiungerlo. La paura di volare lo sconfigge ancora una volta e quindi intraprende un estenuante viaggio per mare da Dublino all’America. Ma intanto ha vinto una grande battaglia contro sé stesso: si è mosso dal suo mondo di cristallo fatto di ansia e angosce, si è messo in viaggio col suo trolley nero e la sua camminata allampanata, ce l’ha fatta, è partito. Lo prende come un viaggio obbligato, non sta andando a cercare se stesso, il suo non è un viaggio spirituale, di ricerca interiore, deve solo fare quello che non ha fatto per trent’anni: il figlio, un’altra novità per lui. 
Arrivato a New York, il padre è già morto, ma a Cheyenne viene affidata una missione, fare quello che il padre non è riuscito a fare: trovare Aloise Langer, il nazista che tanti anni prima lo aveva umiliato pubblicamente nel campo di concentramento. 
All’oscura decadenza ora si sostituisce la vendetta. Sorrentino effettua un rapido cambio di scenario e dà Cheyenne in pasto alle pianure sconfinate del New Mexico, lo catapulta a bordo di un pick-up e mette in atto una leggera ma inesorabile trasformazione, vediamo la nostra rockstar aprirsi al mondo da cui aveva deciso di ritirarsi, forse per stanchezza, forse per paura, codardia o forse semplicemente per un opprimente senso di decadenza che gli si è aggrappato all’anima e che non lo abbandona più ormai da trent’anni. Le strade della provincia americana che percorre a gran velocità rappresentano il percorso, il viaggio che permette a Cheyenne di tornare a vivere ma soprattutto di lasciarsi finalmente il passato alle spalle, e torna ad essere un uomo, e non solo un’ ombra, non più un attore che si trascina in un teatro di risentimenti. 
In questo viaggio il destino (per chi ci crede) o il caso gli pone sulla strada tante persone che cambieranno il suo modo di vedere il mondo: il tatuatore con cui parla al bar di gratitudine e arte, Rachel che gli dice che le paure ti salvano sempre e suo figlio con cui canta This must be the place dei Talking Heads, e grazie a lui per la prima volta dopo tanti anni posa le dita su una chitarra. 

Non sto cercando me stesso. Sono in New Mexico, non in India”, dice Cheyenne con il solito candore dipinto in faccia. Magari non lo sta cercando, ma l’ha ritrovato, ha scelto di non avere paura perché in fin dei conti, almeno una volta nella vita, devi essere coraggioso.

Questa volta. Inserisco due brani del film: This must be the place dei Talking Heads perché è inevitabile. E Lay and love composta da David Byrne ma cantata dai Pieces of shit, band creata dall'immaginazione di Sorrentino, perché, nella sua semplicità, la trovo bellissima.




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4/ 5
Oleh