giovedì, ottobre 16, 2014

Joyce e la sua gente di Dublino

Ogni sera, mentre alzavo lo sguardo alla finestra, ripetevo piano piano fra me la parola paralisi. M'era sempre suonata strana, come gnomone in Euclide e simonia nel catechismo. Ora tuttavia mi risuonava come il nome di un essere malefico e peccaminoso. Un essere che mi riempiva di paura e al quale comunque bramavo sta vicino per contemplare l'ordito mortale.” (The sisters)

The Dubliners o Gente di Dublino, scritto fra il 1904 e il 1907, è, secondo lo stesso J. Joyce, la spietata e nichilista radiografia di una città, del suo ambiente e dei suoi abitanti.
In quelli che sono i primi anni del Novecento, lo scrittore elabora un ritratto perfetto di un paese distante dall'Europa ma che ne riflette i problemi e le controversie.
Si avverte, inesorabile, la decadenza che attraversa il mondo e non dà scampo.
Ritroviamo, infatti, all'interno di questi racconti-specchio, tre temi principali che faranno da filo conduttore a tutte le storie: l'abitudine, il desiderio di fuga e l'intersezione fra vita e morte.

L'atmosfera è greve e soffocante. Si alternano quadri di vita immobile, di nulla quotidiano. Ecco da cosa nasce la paralisi, punto cardine della letteratura joyciana. E' impossibile cambiare la routine, dalla quale si è risucchiati come in un vortice.
In “The Dead”, il racconto più famoso, avvertiamo l'immobilità ed il disagio fin da subito. Gabriel, il protagonista, è sempre nervoso e fuori luogo, le tenebre e la neve che ricopre l'intera città lo accompagnano come a voler indicare l'ineluttabilità della vita stessa.

Gabriel non è un eroe, ma un uomo comune come tutti noi. Joyce riporta con estremo realismo quelle che sono le paure e le sensazioni dell'animo umano.
Inoltre la morte è sempre presente, in ogni circostanza, è lì. Non possiamo fare nulla al suo cospetto.
L'uomo diventa un essere la cui vita è intersecata con la morte stessa. Vorremmo fuggire, come Gabriel, ma possiamo solo guardare fuori dalla finestra, senza sapere dove andare o cosa fare. Spiazzati dalla paralisi.
E quando capiamo quello che la vita può darci e toglierci, quando siamo consapevoli dei propri limiti, in quell'attimo avviene la nostra epifania. L'ammissione delle colpe, delle angosce. La scoperta di quello che la nostra consapevolezza celava al nostro animo.

Accade in ogni singolo racconto, accade allo stesso Gabriel, il quale scopre di essere solo un misero uomo che ha occupato un misero posto nella vita di sua moglie, innamorata del giovane Michael Fury.
Gabriel, il cui nome è parlante, è allora l'arcangelo annunciatore del destino dell'uomo e della sua pochezza. Della sua decadenza e inadeguatezza.
Questo grazie alla parola, arma nelle mani di James Joyce. Mezzo attraverso il quale crea nuovi strumenti come il monologo interiore per aprire un nuovo capitolo della letteratura moderna.
I racconti diventano come delle epiclesi, ovvero dei momenti di liturgia della parola per toccare con mano la realtà dublinese e la sua oscurità.

Quello che Joyce vuole rappresentare è l'incomunicabilità che è di fondo alla vita. Per quanto possano esserci rumori o musica, come il ballo e le chiacchiere in “The Dead”, i dialoghi sono basati sull'incomprensione.
Le parole rimbalzano come su uno specchio.
C'è il conflitto interiore, c'è l'uomo reale, attanagliato dalle insicurezze e dal gelo della morte.


Uno appresso all'altro tutti sarebbero diventati ombre.” (The Dead)

Condividi

articoli simili

Joyce e la sua gente di Dublino
4/ 5
Oleh