“Ogni sera, mentre alzavo lo
sguardo alla finestra, ripetevo piano piano fra me la parola
paralisi. M'era sempre
suonata strana, come gnomone in Euclide e simonia nel catechismo. Ora
tuttavia mi risuonava come il nome di un essere malefico e
peccaminoso. Un essere che mi riempiva di paura e al quale comunque
bramavo sta vicino per contemplare l'ordito mortale.” (The sisters)
The Dubliners o Gente di Dublino, scritto fra il 1904 e il 1907, è,
secondo lo stesso J. Joyce, la spietata e nichilista radiografia di
una città, del suo ambiente e dei suoi abitanti.
In quelli che sono i primi anni del Novecento, lo scrittore elabora
un ritratto perfetto di un paese distante dall'Europa ma che ne
riflette i problemi e le controversie.
Si avverte, inesorabile, la decadenza che attraversa il mondo e non
dà scampo.
Ritroviamo, infatti, all'interno di questi racconti-specchio, tre
temi principali che faranno da filo conduttore a tutte le storie:
l'abitudine, il desiderio di fuga e l'intersezione fra vita e morte.
L'atmosfera è greve e soffocante. Si alternano quadri di vita
immobile, di nulla quotidiano. Ecco da cosa nasce la paralisi, punto
cardine della letteratura joyciana. E' impossibile cambiare la
routine, dalla quale si è risucchiati come in un vortice.
In “The Dead”, il racconto più famoso, avvertiamo
l'immobilità ed il disagio fin da subito. Gabriel, il
protagonista, è sempre nervoso e fuori luogo, le tenebre e la
neve che ricopre l'intera città lo accompagnano come a voler
indicare l'ineluttabilità della vita stessa.
Gabriel non è un eroe, ma un uomo comune come tutti noi. Joyce
riporta con estremo realismo quelle che sono le paure e le sensazioni
dell'animo umano.
Inoltre la morte è sempre presente, in ogni circostanza, è
lì. Non possiamo fare nulla al suo cospetto.
L'uomo diventa un essere la cui vita è intersecata con la
morte stessa. Vorremmo fuggire, come Gabriel, ma possiamo solo
guardare fuori dalla finestra, senza sapere dove andare o cosa fare.
Spiazzati dalla paralisi.
E quando capiamo quello che la vita può darci e toglierci,
quando siamo consapevoli dei propri limiti, in quell'attimo avviene
la nostra epifania. L'ammissione delle colpe, delle
angosce. La scoperta di quello che la nostra consapevolezza celava
al nostro animo.
Accade in ogni singolo racconto, accade allo stesso Gabriel, il quale
scopre di essere solo un misero uomo che ha occupato un misero posto
nella vita di sua moglie, innamorata del giovane Michael Fury.
Gabriel, il cui nome è parlante, è allora l'arcangelo
annunciatore del destino dell'uomo e della sua pochezza. Della sua
decadenza e inadeguatezza.
Questo grazie alla parola, arma nelle mani di James Joyce. Mezzo
attraverso il quale crea nuovi strumenti come il monologo interiore
per aprire un nuovo capitolo della letteratura moderna.
I racconti diventano come delle epiclesi, ovvero dei momenti di
liturgia della parola per toccare con mano la realtà dublinese
e la sua oscurità.
Quello che Joyce vuole rappresentare è l'incomunicabilità
che è di fondo alla vita. Per quanto possano esserci rumori o
musica, come il ballo e le chiacchiere in “The Dead”, i dialoghi
sono basati sull'incomprensione.
Le parole rimbalzano come su uno specchio.
C'è il conflitto interiore, c'è l'uomo reale,
attanagliato dalle insicurezze e dal gelo della morte.
“Uno
appresso all'altro tutti sarebbero diventati ombre.” (The Dead)
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Joyce e la sua gente di Dublino
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5
Oleh
Ilaria Amoruso