giovedì, gennaio 21, 2016

La macchia umana - Philip Roth

Nella prima pagina del primo capitolo de La macchia umana dello scrittore americano Philip Roth, Coleman Silk, professore settantunenne di lettere classiche, porta Nathan Zuckerman, suo unico amico (e voce narrante), a conoscere Faunia Farley, sua amante ormai da mesi, nella fattoria in cui lavora come mungitrice di mucche in cambio di una stanza in cui poter dormire e qualcuno con cui parlare quando necessario. Coleman sceglie, per il fatidico momento delle strette di mano, un tardo pomeriggio d’estate, che carica l’atmosfera di una pacata eccitazione, di una serenità che pervade e inquieta. Nathan, scrittore solitario, ha rinunciato da tempo alla vita in società, per mancanza di forza o forse di volontà di affrontare quelle imponderabili fatiche che sono le relazioni umane, ma, nonostante la poca esperienza nelle vicende degli uomini, percepisce subito le sottili incrinature di quella che sembra essere una scena perfetta di un pomeriggio d’estate, e si accorge che, forse, è proprio quell’apparente e calda tranquillità, a dar vita al senso di profondo squilibrio che c’è tra i due: lui settantenne, colto, con alle spalle una vita serena e “convenzionale” da professore preparato, marito fedele e padre presente, lei poco più che trentenne, analfabeta, con un lavoro umile e un passato implacabilmente tragico.
Roth, come un prestigiatore che svela uno dei suoi oggetti nascosti scostando, con un abile movimento del polso, il mantello che lo copre, porta la nostra attenzione sul primo punto di fuoco del libro: la sfida alla convenzione, al politicamente corretto, al pettegolezzo e all’ottusità della mentalità di paese, una relazione che non ha e non DEVE avere futuro, un vicolo cieco, un fuoco prorompente, persino distruttivo e, per questo, destinato a durare il tempo di una notte. I due s’immergono in questa relazione senza futuro proprio perché è senza futuro, perché è immediata, schietta, senza sorprese, si rivela per ciò che è, niente complicazioni. Lei è stanca di ogni sorpresa, lui è stanco di avere un avvenire a cui pensare.  

Coleman Silk era stato per vent’anni professore di letteratura greca all’Athena College, sposato per tutta la vita con la sua amata Iris e padre di quattro bambini, tre maschi e una femmina. Una vita convenzionale, forse noiosa, ma un modo di esistere, di stare al mondo che Coleman aveva progettato nei minimi dettagli, senza lasciare spazio al volere del destino, alla forza delle tradizioni e all’importanza delle radici. Aveva ordinato al destino di rimanere al proprio posto, dimenticato ogni tradizione e sradicato ogni radice. Coleman Silk era stato, fino al terribile giorno delle proprie dimissioni, consegnate a causa di un’accusa (infondata) di razzismo mossagli da due studenti di colore, quello che Roth chiama “il più grande dei pionieri dell’io”, un nemico del caso e un difensore della fragilità dell’individuo contro la solida forza del gruppo, della categoria, un ragazzo, e poi un uomo, determinato a costruirsi da solo, passo dopo passo, la strada da percorrere. Eppure, arrivato a un punto della vita in cui non si sarebbe aspettato più nulla di nuovo, più niente da imparare, ecco che Coleman Silk si ritrova a dover riconoscere, completamente disarmato davanti alla perdita del suo ruolo di insegnante e alla morte della moglie, ciò che neanche studiando le più grandi tragedie greche aveva saputo capire: “di come accidentalmente sia fatto il destino e di come tutto possa sembrare casuale quando è inevitabile”.


La vicenda umana tra Coleman e Faunia, nella sua spoglia semplicità, è soffocata da un’opprimente “tirannia della decenza”, quotidianamente accolta da sguardi scandalizzati e da parole mozzate sussurrate da un orecchio all’altro, perché nessuno capisce fino in fondo quella relazione, ma tutti credono di sapere tutto, guidati dall’indignazione, dall’etica del giusto e dei doveri, immersi fino al collo nella palude della tipica ipocrisia americana della fine degli anni ’90. EVERYONE KNOWS: questo il titolo del primo lungo capitolo del libro. «TUTTI SANNO che stai sfruttando sessualmente una donna maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni». 
Ma nessuno sa niente: che lui in realtà la ama, anche se non vorrebbe, anche se ha cercato in tutti i modi di evitarlo perché non erano quelli gli accordi, “niente amore” si erano detti, che lei sarà l’ultimo amore della sua vita, non il primo né il più grande, ma l’ultimo, nessuno sa del suo segreto e del suo passato da “pioniere dell’io” e nessuno sa che, per lei, Coleman è una speranza, qualcosa che non può che farle bene. «Tutti sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa».

Ed è come se Coleman sia stato punito per aver desiderato troppo, per aver tentato di arrivare così in alto da toccare il cielo, là dove l’uomo, tutti lo sanno, non ha il permesso di arrivare, per aver sfidato chi non bisognava sfidare, per esser stato presuntuoso e impuro come gli dei greci che lo avevano accompagnato tutta la vita, per aver lasciato l’inevitabile “ macchia umana” che tutti gli uomini sono destinati a lasciare dietro di sé e per non aver avuto la presunzione di potersi purificarsi perché l’illusione della purezza è spaventosa, è folle, cos’è la ricerca di purificazione se non altra impurità?

“Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c'è altro mezzo per essere qui. Non ha niente a che fare con la disobbedienza. Niente a che fare con la grazia, la salvezza o la redenzione. E’ in ognuno di noi, insita, innata, definita. La macchia che è lì prima del marchio.”  

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Oleh