Nella prima pagina del primo capitolo de La macchia umana dello scrittore
americano Philip Roth, Coleman Silk, professore settantunenne di lettere
classiche, porta Nathan Zuckerman, suo unico amico (e voce narrante), a
conoscere Faunia Farley, sua amante ormai da mesi, nella fattoria in cui lavora
come mungitrice di mucche in cambio di una stanza in cui poter dormire e
qualcuno con cui parlare quando necessario. Coleman sceglie, per il fatidico
momento delle strette di mano, un tardo pomeriggio d’estate, che carica
l’atmosfera di una pacata eccitazione, di una serenità che pervade e inquieta.
Nathan, scrittore solitario, ha rinunciato da tempo alla vita in società, per
mancanza di forza o forse di volontà di affrontare quelle imponderabili fatiche
che sono le relazioni umane, ma, nonostante la poca esperienza nelle vicende
degli uomini, percepisce subito le sottili incrinature di quella che sembra
essere una scena perfetta di un pomeriggio d’estate, e si accorge che, forse, è
proprio quell’apparente e calda tranquillità, a dar vita al senso di profondo
squilibrio che c’è tra i due: lui settantenne, colto, con alle spalle una vita
serena e “convenzionale” da professore preparato, marito fedele e padre
presente, lei poco più che trentenne, analfabeta, con un lavoro umile e un
passato implacabilmente tragico.
Roth, come un prestigiatore che svela uno dei suoi oggetti nascosti scostando,
con un abile movimento del polso, il mantello che lo copre, porta la nostra
attenzione sul primo punto di fuoco del libro: la sfida alla convenzione, al
politicamente corretto, al pettegolezzo e all’ottusità della mentalità di
paese, una relazione che non ha e non DEVE avere futuro, un vicolo cieco, un
fuoco prorompente, persino distruttivo e, per questo, destinato a durare il
tempo di una notte. I due s’immergono in questa relazione senza futuro proprio
perché è senza futuro, perché è immediata, schietta, senza sorprese, si rivela
per ciò che è, niente complicazioni. Lei è stanca di ogni sorpresa, lui è
stanco di avere un avvenire a cui pensare.
Coleman Silk era stato per vent’anni professore di
letteratura greca all’Athena College, sposato per tutta la vita con la sua
amata Iris e padre di quattro bambini, tre maschi e una femmina. Una vita
convenzionale, forse noiosa, ma un modo di esistere, di stare al mondo che
Coleman aveva progettato nei minimi dettagli, senza lasciare spazio al volere
del destino, alla forza delle tradizioni e all’importanza delle radici. Aveva
ordinato al destino di rimanere al proprio posto, dimenticato ogni tradizione e
sradicato ogni radice. Coleman Silk era stato, fino al terribile giorno delle
proprie dimissioni, consegnate a causa di un’accusa (infondata) di razzismo
mossagli da due studenti di colore, quello che Roth chiama “il più grande dei
pionieri dell’io”, un nemico del caso
e un difensore della fragilità dell’individuo contro la solida forza del
gruppo, della categoria, un ragazzo, e poi un uomo, determinato a costruirsi da
solo, passo dopo passo, la strada da percorrere. Eppure, arrivato a un punto
della vita in cui non si sarebbe aspettato più nulla di nuovo, più niente da
imparare, ecco che Coleman Silk si ritrova a dover riconoscere, completamente
disarmato davanti alla perdita del suo ruolo di insegnante e alla morte della
moglie, ciò che neanche studiando le più grandi tragedie greche aveva saputo
capire: “di come accidentalmente sia fatto il destino e di come tutto possa
sembrare casuale quando è inevitabile”.
La vicenda umana tra Coleman e Faunia, nella sua spoglia
semplicità, è soffocata da un’opprimente “tirannia della decenza”, quotidianamente
accolta da sguardi scandalizzati e da parole mozzate sussurrate da un orecchio
all’altro, perché nessuno capisce fino in fondo quella relazione, ma tutti
credono di sapere tutto, guidati dall’indignazione, dall’etica del giusto e dei
doveri, immersi fino al collo nella palude della tipica ipocrisia americana
della fine degli anni ’90. EVERYONE KNOWS: questo il titolo del primo lungo
capitolo del libro. «TUTTI SANNO che stai sfruttando sessualmente una donna
maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni».
Ma nessuno sa niente: che lui in realtà la ama, anche se non vorrebbe, anche se
ha cercato in tutti i modi di evitarlo perché non erano quelli gli accordi,
“niente amore” si erano detti, che lei sarà l’ultimo amore della sua vita, non
il primo né il più grande, ma l’ultimo, nessuno sa del suo segreto e del suo
passato da “pioniere dell’io” e nessuno sa che, per lei, Coleman è una speranza,
qualcosa che non può che farle bene. «Tutti sanno… Cosa? Perché le cose
vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli
avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche
irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa».
Ed è come se Coleman sia stato punito per aver desiderato
troppo, per aver tentato di arrivare così in alto da toccare il cielo, là dove
l’uomo, tutti lo sanno, non ha il permesso di arrivare, per aver sfidato chi
non bisognava sfidare, per esser stato presuntuoso e impuro come gli dei greci
che lo avevano accompagnato tutta la vita, per aver lasciato l’inevitabile “
macchia umana” che tutti gli uomini sono destinati a lasciare dietro di sé e
per non aver avuto la presunzione di potersi purificarsi perché l’illusione della purezza è spaventosa, è
folle, cos’è la ricerca di purificazione se non altra impurità?
“Noi lasciamo una
macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà,
abuso, errore, escremento, seme: non c'è altro mezzo per essere qui. Non ha
niente a che fare con la disobbedienza. Niente a che fare con la grazia, la
salvezza o la redenzione. E’ in ognuno di noi, insita, innata, definita. La
macchia che è lì prima del marchio.”
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La macchia umana - Philip Roth
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Oleh
Diletta L