lunedì, agosto 04, 2014

Venuto al mondo


“Torniamo tutti a casa da soli, Aska, tutti, nel fondo dei nostri corpi, nati per non durare”

Non so da dove cominciare, e non sono neanche sicura che riuscirò a scrivere qualcosa di sensato: questa è la verità. Mi siedo, appoggio le dita alla tastiera, cerco di mettere in ordine i pensieri e prendo un lungo respiro, una parte di me, quella più nascosta forse, vorrebbe incominciare a scrivere e non fermarsi più, per condividere quella che mi è sembrata più un’esperienza di vita che una semplice lettura, ma un’altra parte, senza dubbio quella più razionale, mi dice di non provarci neanche, perché in realtà è impossibile da descrivere una storia del genere, figuriamoci poi da “recensire”. Odio la parola “recensire”. Venuto al mondo è, come amo definirlo, una lunga poesia dolorosa ed è una storia che fa male, che si impossessa del tuo cuore, dei tuoi occhi e dei tuoi pensieri fin dalle prime parole: “Il viaggio della speranza”, che ti travolge come una tempesta e alla fine ti lascia letteralmente col culo per terra, dolorante e con un nodo alla gola che malauguratamente non si trasforma in lacrime.
Venuto al mondo è come una grande matrioska, un involucro che contiene in sé tante storie e ognuna di queste storie non può vivere, non può esistere senza le altre, così come i personaggi, ogni vita è legata ad un’altra formando una catena invisibile e indistruttibile. Gemma e Diego sono al centro di questo involucro, le loro vite, tanto diverse quanto uguali, si incontrano nella fredda e ancora accogliente Sarajevo dell’inizio degli anni 80, nella Sarajevo che si preparava alle Olimpiadi invernali con il naso all’insù sperando di veder cadere qualche fiocco di neve, nella Sarajevo di Gojko, poeta e venditore di jojo bosniaco dalla voce graffiata dal fumo, dall’alito caldo di alcool e dalle mani grandi che accompagneranno Gemma attraverso le salite e le discese della sua vita.
La Mazzantini si incunea nel primo sguardo di Gemma e Diego in quel vecchio pub polveroso e, come uno specchio, lo fa proprio e lo mostra a chi lo vuole guardare attraverso un riflesso, prende per mano chi vuole assistere a questo amore e lo porta nelle strade caotiche di Roma, sulle sponde illuminate del Lungotevere e nella chiatta invasa dalla luce soffusa delle candele dove Gemma e Diego  vivono i primi tempi del loro amore infinito.
E all’improvviso ti sembra di essere lì, quando invece sei sul tuo letto con il caldo di luglio che entra dalla finestra inutilmente aperta, a guardare Diego che salta come faceva da bambino nei carruggi di Genova, agita le braccia e grida “amore, amore!” nei suoi pantaloni rossi a sigaretta e con lo zuccotto di lana ben schiacciato in testa da cui cadono migliaia di riccioli, credi di essere nelle gambe di Gemma che corrono per raggiungerlo, prima verso quella fredda chiatta, poi lungo le scale della loro casa nuova e nelle dita di Diego mentre suona il pianoforte nel salone luminoso con gli occhi chiusi e una felicità infinita sul volto. Ad un tratto siamo in quell’unico occhio aperto di Diego mentre fotografa le pozzanghere, le immortala perché da un momento all’altro si muovono, si trasformano e quando andrà nella sua camera oscura e vedrà quelle foto, molto probabilmente ci sarà, in quello specchio d’acqua per terra, qualcosa che gli era sfuggito mentre scattava, il riflesso di qualcuno, una luce particolare. In quell’occhio aperto quando si butta per terra in metropolitana e fotografa i piedi impazienti delle persone che aspettano, quei piedi gli dicono tutto. Gemma tappezza la casa di quelle foto e all’improvviso le sembra di camminare in un mondo di pozzanghere, piedi che aspettano, nuche di persone sconosciute, e dappertutto c’è anche lei, la sua pancia, i suoi capelli disordinati dopo una giornata chiusa in redazione o mentre è seduta pensierosa sul divano. Diego non la fa mettere in posa, odia le foto programmate. La segue per tutta la casa come un gatto silenzioso, la fotografa senza che lei se ne accorga e poi le mostra le foto, le fa vedere i suoi pensieri, qualcosa di lei che le è sfuggito, le sussurra “amore, guarda come ti tormenti, guarda quanto sei stupida”, le restituisce l’immagine di sé stessa.


“Ma tu come fai ad essere sempre così felice?”
“Semplice, mi fa schifo la tristezza”



Con il loro amore cresce il desiderio di un figlio, la voglia di ridare qualcosa al mondo, di ricominciare a sperare, “la speranza appartiene ai figli. Noi adulti abbiamo già sperato, e quasi sempre abbiamo perso”. Gemma vuole un figlio con i piedi sottili di Diego e con la sua nuca perché lui dice che è da lì che nasce la vita, la nuca è il destino, la sorgente. Ma come in tutti gli amori infiniti, come in ognuno di noi, c’è un’imperfezione: Gemma è sterile, o come viene terribilmente definita dal medico dopo mesi di estenuanti visite e cure “incompatibile alla vita”. Si sente una donna inutile, asciutta, una “bicicletta senza catena”, il suo ventre vuoto diventa un’ossessione, la proiezione di una vita svuotata ormai da qualsiasi felicità e che si riempie lentamente ma inesorabilmente di rabbia, verso sé stessa, verso la natura contro cui ha perso miseramente, persino verso i bambini, perché sono capitati ad altre madri. Anche Diego si è svuotato. Di tutta quella invadente felicità che aveva negli occhi e nelle gambe.
Cercano il loro bambino dappertutto, negli occhi di un neonato, in un paio di gambe sottili che corrono dietro ad una palla. Lo cercano nella guerra che sta dilaniando Sarajevo, rappresenta la loro speranza di nascita in un mondo che sta morendo intorno a loro, un nuovo corpo sulle macerie della città dove è nato il loro amore. Si affidano alle braccia possenti di Gojko, trovano sollievo nelle poche ore passate con la piccola Sebina, sua sorella, nelle sue scarpe che si illuminano quando cammina, lei forse è  l’ unica luce della loro vita, è l’unica voce che copre il rumore delle bombe.
La Mazzantini gioca con le vite di Diego e Gemma, al loro declino si accompagna quello della città circostante, scrive in modo crudele e bellissimo, ti spezza il fiato e ti lascia galleggiare in un dolore sordo, in una sensazione di malessere, ti senti impotente, triste, colpevole, ma questa storia, così come tutte le belle poesie, ti lasciano con la fame d'amore, così come dice Gojko.
Sposta la sua visuale, entrando persino nei pensieri dei cecchini serbi, dei cetnici, nei loro movimenti prima di sparare, li descrive con sadismo e una vena di rassegnazione: “
Per me era come sparare sui conigli, disse uno di loro in un'intervista. Non si sentiva colpevole, non capiva nemmeno perché ci fosse tutto quell'interesse intorno a lui, non era pazzo o sadico o altro. Aveva semplicemente perso il senso della vita. La pietà muore insieme al primo che uccidi. Era morto anche lui, per questo sorrideva.”
Riesce a scavare nell’anima dei suoi personaggi, nella mente di Gemma che guarda il suo amato Pietro mentre dorme, la nuca del figlio tanto desiderato mentre lei cerca di ripercorrere la sua vita per le strade di Sarajevo.
Chi sei? Quante volte me lo sarei chiesta. Quante volte ti avrei guardato con sospetto. Sei scemo e intelligente, sei innocuo e pericoloso. Sei una possibilità tra milioni.”


Mi sembrava di essere di fronte a Gojko, il poeta che cerca di “arraffare un po’ di cielo” con i suoi versi, col fumo della sua sigaretta che mi bruciava gli occhi, con le parole della sua poesia più bella, quella dedicata alla madre, che risuonavano nelle mie orecchie.
“Tieni un capo del filo,  con l’altro capo in mano
 
io correrò nel mondo.
 
E se dovessi perdermi
 
tu, mammina mia, tira.”
E mi sembra di sentirlo ancora.




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Oleh