"E mentre meditavo sull'antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all'estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in questa vasta oscurità dietro la città, dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte."
(F.S. Fitzgerald, Il grande Gatsby)
Di questo romanzo ricordo il senso di sconforto che mi attendeva dietro l'ultima pagina. All'epoca mi indignai, dissi Ma che razza di finale è? e mi arrabbiai con Gatsby, con Daisy e con tutti gli altri. La verità, però, è che quel finale era inevitabile. Come in una tragedia greca, era necessaria la catarsi. E così, il cadavere di Gatsby che galleggia nella piscina, vittima di una immeritata vendetta, e nessuno al suo funerale, costituiscono il finale perfetto, il ritratto plastico e scioccante di un fallimento.
A fallire è il sogno, quello che Gatsby porta dentro di sé sin dalla gioventù: diventare ricco e importante per poter meritare l'amore di Daisy, benestante fanciulla con gli occhi vacui e il cervello vuoto. Un nome che dice tutto, Daisy, così frivolo e banale che il solo pronunciarlo permette di inquadrare perfettamente l'insulsa vanità del personaggio. Eppure Gatsby l'ama. Diventa ricco, si afferma in società, compra una villa sulla riva opposta rispetto all'abitazione di Daisy, che intanto ha sposato un odiosissimo Tom Buchanan. C'è una scena, nel film di Jack Clayton (1974), che si ripete più volte, come un ritornello: Gatsby in piedi di fronte all'ingresso di casa sua che guarda la luce del molo di Daisy diventare verde. E' geniale, questo guardarsi a distanza, da due rive opposte, e non potersi raggiungere: è metafora di ciò che realmente accade nella vita dei personaggi. Il "sogno" di cui ci parla Fitzgerald, ovvero quello di arricchirsi e di imporsi nella società benestante dei roaring twenties, non è altro che la rappresentazione dell'american dream, del quale l'autore ci mostra il lato più oscuro. "Il sogno era alle sue spalle, in questa vasta oscurità dietro la città."
C'è, dietro gli innumerevoli e affollatissimi parties organizzati da Gatsby, una solitudine che sconvolge, un vuoto che trova la sua rappresentazione nel funerale del protagonista, al quale partecipa solamente il suo vicino di casa, che è contemporaneamente Osservatore, Amico e Narratore. Tra lustrini, piume, cocktails e charleston, Gatsby è solo dentro il suo sogno: vuole ritrovare Daisy, e per un po' ci riesce anche. Ma è che questo sogno, come ci insegna la penna spietata di Fitzgerald, non è destinato a durare. E così, per coprire le spalle a Daisy, vera fautrice dell'incidente stradale che ha travolto e ucciso Myrtle (l'amante del marito Tom), Gatsby si auto-accusa di omicidio e dovrà subire, nel finale, le tragiche conseguenze della vendetta.
Infine, quell'inquietante cartellone pubblicitario. Jack Clayton inquadra più volte gli "occhi del dr T.J.Eckleburg", che dall'alto osservano l'inevitabile precipitare delle vite dei personaggi, il loro amarsi e incontrarsi e perdersi, e l'agghiacciante indifferenza di Daisy, che lascia morire Gatsby al suo posto e si rifiuta di partecipare al funerale. Tragico e sublime, Il grande Gatsby è il ritratto di una solitudine - di più di una, perché anche Daisy è sola - di un amore mancato e dell'accartocciarsi di un sogno. Il film di Clayton, magistralmente tratto dal romanzo di Fitzgerald, è una pellicola che rispecchia, nei suoi colori e nel suo luccicare, i bagliori di un mondo "ruggente" che si regge, purtroppo, sulle fondamenta incerte dell'apparenza.
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Il Grande Gatsby ovvero Il fallimento del Sogno Americano.
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Oleh
Unknown
2 commenti
commentiAmo i cappellini di Daisy, sono indispensabili come tutte le cose meravigliosamente superflue :-)
Replyahahah verissimo xD e le piumette...e i lustrini...*.*
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