domenica, febbraio 23, 2014

Her - Another Kind of Love


Il 2 marzo a Los Angeles si terrà l’86esima edizione degli Oscar, presentata da uno dei miei miti indiscussi Ellen DeGeneres, e io, come ogni anno, corro dietro ogni pellicola pur di arrivare alla fatidica data avendo visto almeno tutti quelli candidati come “Miglior Film”. Quest’anno proprio non vorrei essere nei crudeli panni della giuria. Ma per me, tra broker pazzi, schiavi dalla storia strappalacrime, pirati dei nostri tempi e ladri di sani principi, l’outsider è “Her”.
Her è quel film che in cuor tuo sai avere poche possibilità di vittoria, sai bene che la concorrenza è spietata e che probabilmente ci sono storie migliori, ma fino alla proclamazione non puoi fare a meno di pensare “Chissà…”
Ambientato in un futuro non così lontano e nemmeno così vicino, in cui la tecnologia è entrata ancora più a fondo nella vita delle persone dettandone ritmi e stili di vita, Her ti spiazza. E chiunque dica il contrario, sappiatelo, vi sta mentendo. Il protagonista, interpretato dal superbo Joaquin Phoenix, è Theodore Twombly, professione scrittore di lettere. Scrittore di lettere strappalacrime, aggiungo io. Scrittore di lettere è una professione che per un nanosecondo non mi vergogno ad ammettere mi sono chiesta se esistesse, per poi ricollegare il neurone assopito e concludere che no, non esiste un’agenzia che scrive lettere al posto tuo per il figlio che va all’università, l’amore della tua vita a cui ogni tanto devi ricordare quanto sia importante, la mamma che be’, una lettera per la mamma non ha bisogno di pretesti. Una professione che non esiste, dicevo, ma che sarebbe fantastica. Theodore, sarei portata a dire, è una persona infelice. Ma pensandoci un secondo in più non riesco a definirlo infelice. Theodore semmai è incompleto. Ha il sapore di quelle personalità profonde che a un certo punto della loro vita hanno smesso di andare avanti, di colorarsi e stratificarsi e semplicemente si sono fermate dov’erano. E il motivo, diciamocelo, è più o meno sempre il solito. Non per colpa del tutto sua, non per colpa tutta della moglie, Theodore ha perso l’amore della sua vita. Un amore raccontato con qualche flashback, delicato e gentile, un amore che a un certo punto s’incrina, complici le vite che non vanno come vorresti, complici due persone che maturano in modi diversi. Complice la realtà. Un amore che finisce con un divorzio e con delle carte che Theodore non riesce a firmare.
In questa realtà che tutto e niente ha a che vedere con la nostra, in uno dei mille film che avete di sicuro visto, questo sarebbe il momento in cui una giovane attrice di belle speranze fa il suo ingresso in scena. E qui sta l’idea nuova del film. L’idea un po’ pazza ma che per me funziona. La ragazza che inevitabilmente entra nella vita di Theodore non ha un corpo plasmato dagli assurdi standard Hollywoodiani, no, lei un corpo proprio non ce l’ha. Quello che invade e cambia per sempre la vita di Theodore è un sistema operativo di ultima generazione che prende in mano le redini della sua vita tecnologica e si fa largo nella sua testa fino a sconfinare nella dimensione meno cibernetica possibile. Samantha, così il sistema operativo sceglierà di chiamarsi, ha la voce di Scarlett Johansson che con innegabile bravura e con un’intenzione e una passionalità sempre alle stelle, disegna nell’aria quel corpo che le manca. Pezzo dopo pezzo la vedi fiorire sotto i tuoi occhi. E pezzo dopo pezzo rimette a posto ogni tassello sconnesso della vita di Theodore, dentro e fuori dal suo hard disk.
Chi lo ha definito l’amore tra un uomo e il suo computer forse non ha azzeccato del tutto l’idea che sta dentro e dietro questa storia. Fotografia e musica ti portano passo dopo passo dentro la scoperta di Theodore e Samantha, dentro la crescita di ognuno dei due. Come coppia, strampalata certo, ma come coppia e come entità separate. Vedrete Theodore e Samantha letteralmente espandersi sotto i vostri occhi, con grazia e senza forzature. Crescere e aiutarsi a crescere, insieme. Credo, ma è solo un’opinione personale, che nei dialoghi, a mio giudizio scritti benissimo, a volte si cercasse di spiegare il percorso che Theodore compie per scoprire se stesso e superare gli ostacoli della sua esistenza, più che il confronto tra due mondi così lontani.
La sensazione che mi ha lasciato è quella di una storia bella. Non c’è un altro modo per definirla. È una storia bella. Priva di volgarità, priva di luoghi comuni e cliché stravecchi e strausati delle mille storie d’amore che abbiamo letto e visto. Nasce da un’intuizione interessante, e si sviluppa senza pretese se non quelle di mantenere il livello che l’intuizione stessa suscita. Bella. Che resta dentro e che ti fa stare bene. Leggera ma al tempo stesso complicata e infinita. Come tutte le storie d’amore.
E se questo è l’outsider che, zitto zitto, si fa largo nelle sale e nelle teste, ecco perché proprio non vorrei essere nei panni della giuria di quest’anno. E se anche non conquisterà la satuetta dorata, sono certa che Her catturerà il vostro respiro per almeno un paio d’ore. In fondo mi piace pensare che sia per questo che nascono i film.

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4/ 5
Oleh