giovedì, marzo 31, 2016

Big In Japan: la donna in Giappone tra tradizioni e futuro [II]


La donna giapponese in epoche antiche aveva un ruolo centrale, occupava anche posti di potere di estrema importanza (vennero elette ben sette donne imperatrici). 
Pare che, in epoca antichissima, la società giapponese fosse matriarcale, tanto che la successione andava per linea femminile e molte donne erano a capo dei loro clan, come, ad esempio la regina Himiko che guidava gli Yamatai (I-II secolo d.C.). Solo nelle epoche Nara ed Heian (dal VII al XII), il potere sui clan cadrà in mano maschile e le donne della nobiltà cominceranno ad avere un ruolo di secondo piano, all'ombra del marito e dei figli maschi, recuperando un minimo di potere solo come suocere...mentre nelle classi sociali più basse il ruolo femminile era divenuto più o meno paritario con quello maschile.
Anche nei racconti mitici viene messa in rilievo l’importanza delle donne: basti pensare alla divina Amaterasu, dea del sole da cui scaturisce secondo la tradizione l’intera dinastia regnante. 
Gradualmente questo suo ruolo primario verrà completamente ridimensionato, la donna diventerà completamente subordinata all’uomo, soprattutto a causa della fortissima influenza del confucianesimo, il cui pensiero tradizionale è ancora presente e fa da substrato nella mentalità dei giapponesi di oggi. Il confucianesimo disprezzava infatti le donne, considerate esseri inferiori con l’unico compito di badare alla famiglia, fare ed educare i figli, essere rispettosa verso il marito.  Al di là della facciata di modernità e emancipazione, le donne giapponesi oggi sono ancora ben lontane dal raggiungimento della parità con gli uomini. 
La maggior parte di loro lavora ma ancora non in maniera continuativa e molto difficilmente riescono a raggiungere alti livelli dirigenziali. La donna il più delle volte risente ancora della pressione sociale e della mentalità tradizionale che la vuole brava moglie e madre, dedita alla cura della casa e della famiglia, sottoposta a pressioni sociali, pena il disonore, quali l’obbligo di sposarsi presto (tuttora spesso attraverso un matrimonio combinato dai genitori) e la rinuncia  alla propria carriera lavorativa per occuparsi di casa e famiglia. 
Nonostante i molti passi avanti percorsi dalle donne giapponesi per allontanarsi dallo stereotipo della geisha - bellezza di porcellana da rinchiudere in casa, il cammino verso l’emancipazione è ancora lungo.
Tanti i miti e le tradizioni che ancora oggi in Giappone sottolineano la presunta inferiorità della donna. Con la motivazione che le donne sono una “distrazione” per i pellegrini, le donne non possono scalare il Monte Omibe, situato a Nara. Nel monte dichiarato patrimonio mondiale dell’Unesco si trova il tempio di Ominesanji. Gli uomini ricchi di spiritualità non possono di certo dedicarsi alle donne.
Il corpo femminile però non è solo sinonimo di distrazione, ma anche di purezza! Per cui non può essere sfreggiato o contaminato da una pratica antica come il Giappone stesso, quella del Sumo. Anche se negli ultimi anni esistono circoli come quello dell’ “onnazumo” con una sezione tutta al femminile, nelle gare professionali ancora le donne non sono ammesse.
Nei famossissimi capsula-hotel giapponesi, soggionarvi per le donne potrebbe essere un problema. Comunemente frequentato da uomini non ingrado di tornare a casa poichè ubriachi, o che fanno tardi al lavoro, non è un luogo “socialmente” accettato per le donne. Anche se non esiste nessun regolamento pochi sono gli hotel che accettano delle clienti.
Dei miglioramenti riguardo all’emancipazione femminile avvengono in epoca moderna, nel periodo Meiji, quando il Giappone tenta di assorbire le idee occidentali. Dopo la II guerra mondiale, con l’adozione della nuova costituzione su modello occidentale, vengono garantiti (almeno per iscritto) eguali diritti a tutti i cittadini senza tenere conto del sesso. La legge sulle pari opportunità per abolire la discriminazione lavorativa contro le donne verrà emanata solo nel 1986, ma la posizione delle donne giapponesi nella società è ancora piuttosto subordinata.
La subordinazione femminile si rispeccha ad esempio nello stesso linguaggio giapponese: i mariti per indicare la moglie usano il termine “Kanai”, che significa “dentro la casa”.
I primi movimenti di emancipazione femminile avvengono a fine ‘800- inizio ‘900, quando le donne cominciano ad approfondire l’analisi della loro individualità e sessualità soprattutto attraverso la rivista femminista Seitō, ponendo il problema della necessità di politiche sociali che permettessero alle donne di mantenere la propria libertà. Alcune di queste femministe, socialiste e anarchiche pagarono con le loro vite il loro attivismo: Kanno Suga, Kaneko Fumiko e Itō Noe.
Oggi ci sono le OL, le Office Ladies, il nuovo prototipo/stereotipo della donna moderna impiegata giapponese “emancipata”. Queste impiegate vengono anche chiamate i “Fiori d’ufficio”, esiste per loro anche un manuale delle buone maniere: come devono servire il tè, chiedere scusa e ringraziare, come inchinarsi (anche quando si saluta qualcuno al telefono). Anche se munite dei migliori titoli accademici, il primo lavoro che fanno una volta impiegate è servire il tè ai maschi dell’ufficio. 
Ma le ragazze giapponese di oggi chi sono? “Tokyo Sisters” è il divertente reportage di due giornaliste francesi realizzato dopo aver effettuato delle interviste a varie donne giapponesi nel 2009.
Ci parlano dei fenomeni giovanili esplosi nel quartiere Harajuku come la moda dei travestimenti Cosplay, le Gal (delle fashion addicts: ossessionate dalla moda e dall’essere curate e impeccabili, pronte a tutto per acquistare articoli di lusso), le Shibuyette (le ragazze di Shibuya, si tingono capelli di biondo, labbra bianche, lenti a contatto colorate e viso abbronzatissimo). Ci raccontano però anche delle OL, le Office Lady, generalmente donne non sposate che lavorano come impiegate. Una delle ragazze intervistate dice che “fino a poco tempo fa, una ragazza accedeva solo a posti di segretaria, doveva servire il tè e fare le fotocopie”. Solo di recente le donne hanno avuto accesso allo Sogoshoku (la “carriera globale”, con prospettive di promozione) allo stesso titolo degli uomini. Le autrici ci forniscono anche alcuni dati statistici esemplificativi della condizione lavorativa femminile: nel 2005 solo il 48% delle donne lavorava;  in termini di salario lo scarto tra uomini e donne è tra il 30 e 50%. Inoltre il 70% delle donne giapponesi una volta diventate madri smettono di lavorare. Basti pensare alla celebre frase del ministro della Sanità del Lavoro e del Benessere Hakuo Yanagisawa: “le donne sono macchine per fare figli”.
E poi ovviamente ci sono loro, le Gheishe. Geisha è l'unione di due kanji che significano "arte" e "persona": significa quindi "persona esperta nelle belle arti , nelle belle maniere". La Geisha e' una professionista nell'arte di intrattenere ed allietare noiose cene d'affari e banchetti. Una geisha coniuga spontaneità e raffinato artificio e la sua conversazione e' attenta e elegante. La bellezza della geisha e' insita nella sua padronanza della canzone, della musica , del ballo , dell'abbigliamento, della raffinata presenza in qualunque occasione le si presenti. Lo scopo di una geisha e' di arrivare a rappresentare la perfetta incarnazione dell'iki, canone estatico su cui si basa l'essenza dell'essere giapponese. Per noi occidentali potrebbe rappresentare la "grazia" intesa in senso ampio ed estetico. 
L'Iki è il uno stile, un comportamento, l'essenza della seduzione che sceglie la via piu' difficile del mutamento, dell'adattabilita' dell'anima al proprio interlocutore. Tutto cio porta la geisha al di la' della sua immancabile bellezza fisica : essa contiene in se' la propria arte.
La geisha ha sempre rappresentato l'aristocrazia del mizu shouba e non e' da considerarsi una prostituta. Se fornisce prestazioni sessuali, lo fa a sua discrezione o come parte di una relazione duratura. Il suo lavoro è vendere un sogno - fatto di sontuosità, romanticismo, esclusività - ai più ricchi e potenti uomini del Giappone: politici, uomini d'affari e yakuza. 
Molte geisha raggiunta una certa età sono state spose di uomini facoltosi e di alto livello sociale. 
Sin dall'antichita' , diventare geisha non comprendeva l'insegnamento delle arti amatorie; anzi, dovendo arrivare vergini al mizu age, era loro prescritto di stare il più lontano possibile da qualsiasi contatto di tipo sessuale. Era un modo diverso di essere donna. La geisha era la donna per eccellenza, un gioiello, una cosa rara da ammirare e apprezzare.
Una figura ben distinta dalla geisha è quella della "maiko" ("danzatrice"), giovanissima che studia per divenire geisha. Essa è ben riconoscibile dal kimono molto più colorato, con maniche e obi allungato.
Anche le maiko sono richiestissime sul lavoro, poiché la loro giovinezza e candore compensano la mancanza di quell'esperienza che soltanto le geisha più affermate possiedono.
La cerimonia della rotazione del collare (erikae) segna il cambiamento, l'evoluzione da maiko a geisha.

venerdì, marzo 11, 2016

La bellezza in uno sguardo







“La bellezza di una donna non dipende dai vestiti che indossa né dall'aspetto che possiede o dal modo di pettinarsi. La bellezza di una donna si deve percepire dai suoi occhi, perché quella è la porta del suo cuore, il posto nel quale risiede l'amore.”

 AUDREY HEPBURN



martedì, marzo 08, 2016

International Women's Day


L’8 marzo è internazionalmente la giornata dedicata alle lotte portate avanti dalle donne contro le discriminazioni e le violenze di cui sono ancora oggi vittime in tutto il mondo.

Questa celebrazione si è tenuta per la prima volta negli Stati Uniti nel 1909, in alcuni paesi europei nel 1911 e in Italia nel 1922.

L’8 marzo 1917 le donne di San Pietroburgo in Russia guidarono una manifestazione per chiedere la fine della guerra. La manifestazione fece nascere molte altre proteste che portarono al crollo dello zarismo. L’8 marzo 1917 indica storicamente l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio.
La Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste fissò l’8 marzo come la «Giornata internazionale dell’operaia».

Dopo la Seconda Guerra Mondiale si è fatto per molto tempo risalire la scelta dell'8 marzo ad una tragedia accaduta nel 1908, che avrebbe avuto come protagoniste le operaie dell'industria tessile Cotton di New York, rimaste uccise da un incendio. In realtà questo fatto non è mai accaduto, e probabilmente è stato confuso con l'incendio di un altra fabbrica tessile della città, avvenuto nel 1911, dove morirono 146 pesone, tra le quali molte donne.
I fatti che hanno realmente portato all'istituzione di questa festa sono di diverso tipo, più legati alla rivendicazione dei diritti delle donne, tra i quali il diritto di voto.

Nel 1946 tutta l’Italia partecipò alla festa della Donna e venne scelta la mimosa come simbolo.

giovedì, marzo 03, 2016

Il femminismo




“Io stessa non sono mai stata in grado di scoprire cosa è esattamente il femminismo; so solo che la gente mi chiama femminista ogni volta che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino.”

REBECCA WEST

mercoledì, marzo 02, 2016

Simonetta Sciandivasci: La domenica lasciami sola

In questo inizio mese tinto di rosa, mi sono lasciato tentare dall'opera di esordio dela scrittrice Simonetta Sciandivasci, La domenica lasciami sola. Superate le reticencenze - grazie alla splendida copertina e al consiglio di una amica - per cui la si voleva come una lettura dedicata unicamente al gentil sesso, posso confessare di aver fatto una piacevole scoperta.


    Simonetta Sciandivasci, leva 1985, è nata a Tricarico e cresciuta tra Matera e Ferrandina; attualmente vive a Roma. Ha collaborato con A, Donneuropa, Il Giornale, Pagina99, Nuovi Argomenti e Il Foglio, occupandosi di cultura, moda, costume sulla sua rubrica “Gioco Maschio”. Con il romanzo La domenica lasciami sola, edito da Baldini&Castoldi nell'ottobre del 2014 si affaccia a pieno diritto al mondo letterario italiano. Si tratta di un libro esilarante, zeppo di ironia e rovesciamenti di luoghi comuni. E' un impasto di riflessioni masticate e rimasticate, di dialoghi spassosi che in alcuni passaggi paiono estratti di copioni teatrali alla Carver.

   Per farla breve è il racconto delle dissavventure della protagonista, la signorina S, alle prese con il folgorante incontro con l'uomo della sua vita, Alessandro, che, storpiando il classico motto cristiano, ama il calcio come se stesso. Le avventure narrative hanno inizio nella serata della finale di Champions, Atletico Madrid vs Real Madrid. La signorina S è alle presa con la visione solitaria di questo epico match, mentre la sua attenzione rimbalza tra il tentativo di memorizzare in quale porta debba segnare quale squadra e la comprensione della decisione di Alessandro, ragazzo appena conosciuto in una strana serata al pronto soccorso, il quale ha preferito la visione di questa partita piuttosto che uscire assieme a lei. Da qui prende piede un’ approfondita e spietata analisi di confronto tra l’universo maschile e quello femminile, attraverso l'uso di linguaggi, atteggiamenti, reazioni e sogni colorati di azzurro e di rosa. Da ultimo, riporto un punto del prontuario con i vari consigli alle signorine, da sfoderare in casi di estrema necesità:
 
Se non riuscite a trattenervi dal chiedere cosa accidenti sia il fuorigioco (d’altro canto tacere per novanta minuti dentro il vostro salotto può essere pesante) e lui dovesse schernirvi per questo, ribattete con qualcosa di filosofico, alla Gorgia, tipo: «Nulla esiste; se anche il fuorigioco esistesse, non sarebbe conoscibile; se anche il fuorigioco fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri». D’altronde, potrebbe anche essere arrivato il momento di cambiare i termini di questa annosa querelle e stabilire, appunto, che non sono le donne a non capire, ma o gli uomini a non saper spiegare o il problema a non sussistere. Pensate in grande, potreste essere le iniziatrici di una rivoluzione copernicana. Immaginatevi il capitolo di un sussidiario del Tremila dopo Cristo: «Anni zero, la donna scopre che il fuorigioco non esiste».