Da Marco Caelio a Publio Caelio.
Amatissimo fratello, spero tu stia bene, perché se così è,
sto bene anch’io.
Ti prego di perdonarmi se per oltre due anni non ti ho fatto
avere mie notizie, ma finalmente sono riuscito a trovare del papiro decente che,
solo gli dei sanno come, ha trovato una via per raggiungere la fine del mondo e
cercherò di rimediare alla mia mancanza.
Sì, la fine del mondo, fratello. Da due anni sono stanziato
a Castra Vetera, e sia ringraziato il Padre Giove se questo fato è toccato a me
e non a te. Sei sempre stato quello tra noi due dal cuore più tenero e
sensibile. Però questo posto, fratello mio, questo posto mi sta insegnando la
paura dell’incertezza e il terrore del buio. Lo chiamano limes e si accontentano di questo, quasi che il suono e il
significato di una nostra parola possa tenere lontane la follia e
l’insensatezza di chi è così tanto diverso da noi come lo è un leone da un mastino.
Quando guardo oltre la palizzata io vedo un fiume, non un muro reso
invalicabile dagli déi. E un fiume si può attraversare, come può raccontare la
V Alaudae, che sotto Lollio si coprì di disonore perdendo le insegne poco più
di venti anni fa. Poveri eroi di Tapso! Privati di ogni dignità presso la Mosa.
Certo, poi hanno recuperato le insegne, ma essere privati dell’aquila, e per di
più da un’orda di barbari nudi e armati solo di aste di legno, è una macchia
che rimane in eterno. Per non parlare delle centinaia di legionari massacrati o
mutilati. Perché, vedi fratello, dall’altra parte di quel fiume, il Reno,
vivono uomini che di umano non hanno nemmeno l’aspetto. Sono enormi, coi volti
ispidi e orrendi. Combattono quasi nudi e non usano armi di metallo. Ma quello
che manca loro nelle armi lo recuperano con la prestanza e, soprattutto, col
loro cieco furore guerriero. Li vedessi, Publio, ne rimarresti sconvolto. Sai
che una legione non ha ragione di temere nessun nemico e che le legioni di Roma
sono state vittoriose su Celti e Iberici, Galli, Britanni, Parti, Greci,
Cartaginesi e tutte le altre popolazioni del mondo conosciuto. Ma qui vivono i
Germani. Con la forza o con l’astuzia siamo riusciti a vincere ogni nemico, o
con la semplice superiorità dei nostri eserciti, ma fino a qui e non oltre. Il
fiume che mi separa da questa foresta oscura, così carica di presagi di morte e
dense brume, non mi dà alcun conforto, lo confesso. A volte siamo noi a passare
dall’altra parte, di solito per punire qualche scorreria, e allora il cuore mi
si fa pesante. Siamo armati fino ai denti, ma sotto quelle fronde nere non esiste
luce, non c’è alcuna speranza di redenzione, e mi sembra di non poter mai più
essere sereno o felice. Il sottobosco è quasi del tutto assente e la foschia
avvolge le radici, e i nostri piedi, come serpi dell’Ade. Ogni passo può essere
fatale. Gli alberi stanno in silenzio, nemmeno un fruscio ne smuove le foglie o
i rami, e sembra allora che mille occhi malvagi e maligni ti osservino, nel
silenzio della morte, fino a quando il richiamo di un qualche uccello infernale
non ti fa sussultare, come può sussultare un fanciullo durante un temporale.
Questi boschi, poi, sono popolati anche da animali che non si trovano in
nessun’altra parte del mondo. Bestie con corna più grandi di un uomo, tori
talmente enormi da sembrare l’incubo di un folle. Qui, oltre il fiume, bestie e
uomini sono incubi che hanno preso vita.
Mi sono arruolato nell’anno in cui Cesare ricevette il nome
di Augusto, fratello, e adesso, a cinquantatre anni, scopro cosa sia la paura,
il terrore più cieco. Nel mezzo di una battaglia non ho mai temuto, sapendo che
sarei potuto morire a maggior gloria di Roma, ma tra quegli spettri arborei
sento che anche la mia morte non sarebbe più di una candela spenta con un
soffio.
A poca distanza da qui c’è il forte Aliso. Si trova in
territorio germanico e vi è stanziata la XIX. A volte vi ho dovuto portare
dispacci e rifornimenti. Si potrebbe pensare che il cammino tra due nostri
forti sia sicuro, ma, fratello caro, ogni singolo passo lungo il fiume Lupia
l’ho fatto con la sensazione di essere osservato da qualche divinità silvestre
ostile, pronta a ghermirmi in ogni istante. Tale è il potere degli dèi
germanici. I germani sacrificano i loro nemici a questi dèi, per cui essi sono
sempre assetati di sangue.
É con gratitudine che
prego i Mani e Penati ogni volta che
rientro da queste missioni.
Mai come adesso sento il bisogno di essere protetto anche nella
mente, non solo nel corpo. Sì, amato fratello, se è vero che in battaglia gli
occhi sono i primi a essere vinti, qui, dove tutto il bello finisce, qui è la
mente la prima a essere sconvolta senza che gli occhi vedano alcuna cosa.
Tutto questo, però, rimane sconosciuto a Roma. Coloro che
comandano da lontano credono di poter trovare alleati tra i Germani. Anche nel
nostro forte ne circolano ogni giorno e, per di più, sono sempre i benvenuti
alla tavola del Legato Varo. Anzi, proprio mentre ti sto scrivendo il Legato
sta banchettando con alcuni Cherusci. Tra di loro spiccano per potere e
posizione zio e nipote, di nome Segeste e Arminio. Sembrano non amarsi molto,
tanto che il primo continua ad accusare il secondo di tramare ai danni del
Legato, cosa che io non fatico a credere. Ma il Legato sembra non dar credito
alle sue parole e continua a trattare Arminio con affetto quasi paterno.
Gli dèi mi perdonino, ma non credo che il Legato sia la
persona adatta per occuparsi di questa parte del mondo. Crede di poter
sottomettere i barbari con cavilli e parole, più che con l’acciaio e il fuoco.
Ed è troppo fiducioso in se stesso e nei suoi alleati germanici.
Stamattina ci ha raggiunto una staffetta da Aliso con la
notizia di una rivolta presso i Cauci, una tribù sconfitta da Druso durante la
sua campagna nel nord. Il Legato ha dato immediatamente l’ordine di prepararsi
a tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX, comprese le loro unità di
cavalleria.
Ovviamente non prima di essersi consultato con gli alleati
germanici, visto che il territorio dei Cauci si trova a undici giorni di marcia
da qui e il pecorso è quasi del tutto in territori a noi sconosciuti.
Soffocare la rivolta di una tribù di barbari che nessuno di
noi ha mai visto con quasi ventimila soldati, ecco il grande piano del Legato. Quanti
dei nostri abbiano provato a far ragionare il Legato non so dirlo, ma so per
certo che Arminio lo ha rassicurato sull’aiuto delle sue forze. E questo è bastato
al Legato per prendere una decisione: la parola di un barbaro.
Partiremo domani mattina all’alba, ma ti confesso che ho
solo brutte sensazioni per questa spedizione. Non vergognarti di me, fratello,
ma tu non hai visto, tu non puoi capire cosa sia stare qua. Porterò cone me
anche Privato e Thiamino, i miei liberti. Renderanno la marcia meno penosa,
almeno di sera, quando monteremo l’accampamento.
Quanto vorrei essere a Bononia con te ora, a spaziare con lo
sguardo sulle fertili pianure, invece che a prepararmi per una marcia
estenuante in territorio nemico.
Che gli dèi abbiano pietà di noi. Prega anche tu per me.
Salute e addio, fratello amatissimo.
Scritto a Castra Vetera il settimo giorno prima delle Idi di
Settembre nell’anno 762 dalla fondazione di Roma.
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Oltre il fiume vivevano i mostri
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Oleh
Francesco Vitellini