“I don't know, I think
I've got quite a strange voice. It's more emotional, perhaps, than technical. I
think I quite like to hide it behind lots of backing vocals and things like
that — and on this record, Markus Dravs, who is the producer, he was quite adamant
that I wasn't going to do that. And I agreed with him, because it's good to be
vulnerable, but it was a big change for me. I found it difficult”
E’ passato molto tempo dall’ultimo articolo, me ne rendo
conto solo ora che finalmente, dopo settimane, mi rimetto al computer con in
testa qualcosa da scrivere, e, in questo momento, mentre sono seduta davanti
allo schermo, mi accorgo di quanto mi sia mancato, e mi sembra strano che
riesca ad accorgermene solo adesso. A darmi il bentornato è necessario che sia
il disco che mi ha fatto da colonna sonora a questi mesi estivi, una scoperta
tardiva e troppo speciale per essere lasciata andare e, che, tra le altre cose,
si adatta perfettamente a quello che è il tema di questo settembre di nuovi
inizi: l’introspezione. E quindi mentre mi siedo alla scrivania, mi dico che
sì, questo dev’essere il primo articolo da cui ricominciare.
How big, how blue, how
beautiful è il terzo e ultimo disco del gruppo inglese Florence + The
Machine, rilasciato il 29 maggio di quest’anno e preceduto da tre singoli
accompagnati da videoclip, ciascuno di questi un diverso capitolo della Hbhbhb Odyssey, il nome che il gruppo ha
deciso di dare alla sequenza di video rilasciati a qualche settimana di
distanza l’uno dall’altro.
Chi conosce Florence da più tempo di me, dopo un’attesa estenuante durata
quattro anni, si sarà reso subito conto che questo album è sicuramente il più
introspettivo, passionale e personale dei suoi lavori, contrapposto ma anche
una specie di continuazione di Lungs e
Ceremonials che, invece, avevano
atmosfere meno fisiche, meno “umane”, dominati dal mondo dei sogni e dei morti. E questo lato passionale e introspettivo dell’album si
individua già nella prima canzone, Ship
to wreck, la più conosciuta e forse la più sottovalutata, persino dalla stessa
Florence, che in un’intervista ha ammesso che, fino al momento dell’ascolto del
disco per intero, non era mai stata convinta di quel brano, per la sua estrema
semplicità, rendendo evidente un comportamento che la cantante di Camberwell ha
dovuto affrontare più di una volta: la sua tendenza a complicare le cose
semplici. Ed è proprio questo che si percepisce in Ship to wreck, così come in tutto il disco: la sua paura di
distruggere tutto ciò che ha costruito (Did
i drink too much? Am I loosing touch? Did I build this ship to wreck?) e al
tempo stesso il desiderio, anzi la necessità, di imparare a vivere e ad amare
semplicemente, di affrontare per la prima volta la vita quotidiana da sola, in
una casetta nel sud di Londra, senza riflettori, pubblico e scalette
programmate a fine giornata. Nel video ci sono due versioni di Florence, una
che distrugge tutto ciò che trova sulla sua strada, per rabbia, frustrazione,
l’altra che ripara gli oggetti buttati per terra, che abbraccia le persone
strattonate.
La seconda traccia del disco, What kind of man, è il Chapter 1 della Hbhbhb Odyssey, come a voler
indicare l’inizio, la causa, di tutto, perché se da un lato Florence ha dovuto
affrontare tutto quello che si era lasciata indietro all’inizio della sua
carriera, dall’altro in questi quattro lunghi anni di pausa, ha vissuto una
storia d’amore costantemente paragonata a una tempesta, fatta di indecisioni e
dolore, inevitabilmente finita male, e la presenza di questo amore distruttivo
aleggia su tutto l’album, come un’ombra di cui non ci si riesce a liberare. What kind of man è ritmata, potente,
scandita da colpi di chitarra elettrica, che costituiscono una nuova
caratteristica musicale del gruppo, e da una voce che si dimena e aggredisce, e
nello stesso tempo crolla e chiede compassione a un uomo che la lascia sempre
in bilico (Sometimes you’re half in,
sometimes you’re half out, but you never close the door). La cantante
stessa ha paragonato What kind of man
a una specie di Purgatorio interiore, ad un eterno limbo.
Sulla stessa lunghezza d’onda sono Make up your mind, in cui c’è un ”tu” a
cui Florence si rivolge, contro cui si scaglia, ma c’è anche un “io”, la sé
stessa a cui parla, per studiarsi, per capire cosa fare, e Hiding (I know you’ve tried, but something stops you every time).
Il capitolo 2 di questa Odissea di cui ormai i fans sentono di far parte è St Jude, una ballata lenta e delicata. Florence ha lasciato il limbo di What kind of man e inizia finalmente il viaggio, da sola, sotto la pioggia, con una tempesta in arrivo, cercandone il significato (And I’m learning, so I’m leaving and even though I’m grieving, I’m trying to find a meaning, let the loss reveal it). Se il capitolo 1 era il Purgatorio, questo sembra essere l’Inferno.
Ci sono Queen of peace
e Long & Lost, affiancate in
un unico lungo videoclip, dall’atmosfera particolare, grigia, quasi di un altro
tempo, con l’ombra di un amore abbandonato per sopravvivere, “some things you
let go in order to live”, come canta Florence in Various storms and Saints, forse il più introspettivo dei brani,
uno dei più sofferti. “Una lettera a me stessa” dice Florence, una lunga
camminata per Londra in un momento di disperazione, di “finirà mai tutto
questo?”, seguito da una schiena che si raddrizza, una testa che si rialza (I know it seems like forever, I know it
seems like an age, but one day this will be over, I sware it’s not so far away).
Delilah e Which Witch, animate dall’inconfondibile
tocco di Isabella, tastierista del gruppo e compagna di avventure di Florence
dall’inizio, sempre nell’ombra delle retrovie durante i concerti, come una
guardia che le guarda le spalle, ma presente in ogni brano. Third eye e Mother, entrambe rivolte a sé stessa, l’una come un incoraggiamento
e una rassicurazione (and you deserve to
be loved and you deserve what you are given), l’altra come una preghiera (can you protect me from what I want?).
E alla fine c’è How
big, how blue, how beautiful, il brano che dà il titolo al disco, ispirato
al cielo luminoso e immenso di Los Angeles, luogo in cui è stato scritto, il
primo ad esser stato rilasciato accompagnato da un video in cui vediamo una
Florence spogliata di tutti i vestiti vistosi ed eleganti che avevano dominato Ceremonials, vestita di bianco, che
danza con leggerezza insieme a un’altra se stessa, con i piedi nudi e i capelli
sciolti, senza trucco e smalti, c’è solo lei, la potete vedere, finalmente
riappacificata con se e con il mondo, che guarda il cielo e dice “how big, how
blue, how beautiful”. Con questo brano finisce un’era e ne comincia un’altra,
tutti lo sentono, e io, che ho conosciuto la band con questa canzone, l’ ho
lasciata per ultima perché Florence ci sembra dire che, alla fine di tutto, ce
l’ha fatta, che è felice di aver affrontato uomini indecisi, guerre, viaggi,
tempeste, perché l’hanno fatta arrivare dov’è adesso, più matura, semplice,
bella. Un brano che è stato il primo, come se da subito Florence ci avesse voluto
avvertire del suo cambiamento, che è il terzo nell’album, ma che, secondo me,
rappresenta la fine di questo disco, di questo viaggio, di questa odissea, il
Paradiso dopo l’Inferno.
“When I had a real crack,
and I was making the record, I couldn't get dressed. I wore an anorak and
leggings, and I cycled to the studio every day in the rain with my packed
lunch. Getting dressed is a kind of creative output for me, but when I was
putting all my last resources, and I was a bit broken I think, it was almost
like I wanted to just disappear from myself. And the record really rebuilt me
and took me to such a better place. It made me so much more comfortable to just
be myself”
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How big, how blue, how beautiful
4/
5
Oleh
Diletta L