Negli ultimi
giorni, esattamente negli ultimi sette, otto giorni, ho sentito molto
parlare, sia sul web che in casa, dell'ultimo film di Checco Zalone:
“Quo Vado”. Sono, e continuerò ad esserlo, un detrattore di
questo genere di film, anche se devo ammettere che sotto il punto di
vista commerciale, la pellicola è ben che riuscita.
Ovviamente incassi al botteghino, non sono certo sinonimo di qualità e creatività. Gli ingredienti per questa ricetta sono pochi e ben miscelati: uscita del film a capodanno, con una distribuzione massiccia che copre quasi il sessanta per cento degli schermi, la voglia degli italiani di andare a vedere l'ultimo film del comico barese, volutamente non promosso dallo stesso attore, ed infine la sottile, ma tristemente reale satira politica che contorna il film.
Ovviamente incassi al botteghino, non sono certo sinonimo di qualità e creatività. Gli ingredienti per questa ricetta sono pochi e ben miscelati: uscita del film a capodanno, con una distribuzione massiccia che copre quasi il sessanta per cento degli schermi, la voglia degli italiani di andare a vedere l'ultimo film del comico barese, volutamente non promosso dallo stesso attore, ed infine la sottile, ma tristemente reale satira politica che contorna il film.
La trama si
snoda attraverso le vicende di un uomo chiamato Checco Zalone, che
sin da piccolo aveva come sogno quello di diventare un impiegato con
il posso fisso, un po' come me che sognavo di fare il becchino come
Mefisto della Very Strong Family. Il protagonista realizza il suo
sogno nel migliore dei modi, meglio di qualsiasi italiano sfruttatore
e calcolatore. Impiegato salariato dallo stato, mantenuto dai
genitori, e con una fidanzata con la quale non ha convogliato a
nozze, per il semplice fatto di non volersi assumere le sue
responsabilità, il sogno italiano insomma.
Ma una
brutale riforma, come mi auguro che accada anche nella vera Italia il
più presto possibile, costringe il protagonista a dover lasciare il
suo impiego statale pieno di privilegi e magagne. Ma farà di tutto
pur di non lasciarlo, persino rifiutare un'indennità di cento mila
euro.
Checco sarà
costretto a lavorare nei posti più assurdi e nelle situazioni più
incredibili, sarà infatti messo alle strette pur di essere
licenziato, ma non demorderà fino alla fine. Pian piano l'incontro
con una donna, Valeria, durante un incarico in Norvegia gli farà
totalmente cambiare idea, sia sui modi di vivere degli italiani, ma
anche sul continuare a tenere o no il posto fisso pur di restare
accanto alla donna che ama.
L'intera
trama ruota attorno al dilemma del protagonista, che vede le sue
sicurezze crollare con la cessazione del posso fisso. Una prospettiva
italiana forse troppo paradossale, ai limiti dell'immaginazione ma
tristemente vera sotto certi punti di vista, come i continui ed
infiniti privilegi fatti di trasferte, aspettative, malattie e
cartellini non timbrati. Molte scene possono sembrare banali e
paradossali, soprattutto l'impiegato che chiama all'estero dal
telefono comunale, o lo stesso protagonista che racconta di recarsi a
lavoro ogni mattina alle 11,30 con il cartellino già timbrato. Un
triste realtà che purtroppo ancora oggi circonda la maggior parte
dei nostri uffici pubblici.
L'attore non
è stupido, anzi è stupidamente geniale, poiché grazie al regista
e agli autori è riuscito a toccare un tema vicinissimo agli italiani
e a trasformarsi in un vero e proprio Re Mida del botteghino,
scivolando però in una spirale di clichè e di trash infinito.
Scusatemi se
è poco, ma non è stato né fesso, né ignorante, ma “fottutamente”
commerciale.
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